"La nostra ossessione è sempre stata quella di dare vita a delle persone, prima che a dei personaggi". È questa la convinzione che li ha sempre sostenuti in oltre venti anni di cinema, che non ha perso mai di vista la realtà, neanche questa volta. Con Tori e Lokita, in sala dal 24 novembre con Lucky Red, Jean-Pierre e Luc Dardenne continuano nella loro impresa, iniziata con La promesse nel 1996, di dare forma al reale attraverso le voci di un'umanità ai margini. Qui i protagonisti sono due ragazzini, un bambino e una adolescente, che insieme hanno affrontato il difficile viaggio dall'Africa al Belgio, dopo essere passati per l'Italia. Nel paese che li ha accolti possono fare affidamento solo sulla loro profonda amicizia per risolvere le mille difficoltà quotidiane, a partire dal debito da saldare con i trafficanti che li hanno portati in Europa. In attesa di trovare un posto nel mondo e riappropriarsi di un'identità, finiranno al centro di un losco giro di droga che li sfrutterà come corrieri.
La scelta dei giovani protagonisti
Portare i due giovanissimi protagonisti nell'inferno di Tori e Lokita non deve essere stato facile, anche se i fratelli Dardenne non sono nuovi a questo tipo di sfida. Li hanno scelti dopo un classico processo di casting: "Non avevano mai girato un film prima, ma ci sono sembrati i due attori più adatti" - racconta Luc Dardenne - "Joely Mbundu (Lokita) aveva sedici anni e mezzo, praticamente faceva l'ultimo anno di scuola superiore, Pablo Schils (Tori) invece ne aveva dodici, era all'ultimo anno della scuola primaria. Non siamo abituati a raccontare la sceneggiatura ai nostri artisti, ma ci siamo poi resi conto che questi ragazzi in fondo comprendevano bene quello che avrebbero dovuto fare".
Così nel caso di Joely, per esempio, ci siamo accorti quanto cercasse in tutti i modi di mettere una distanza fra lei e il personaggio; arrivava sul set con una parrucca, poi quando doveva iniziare a girare se la toglieva. Alla fine delle riprese ci ha detto che con questo film era cresciuta, come se avesse in qualche modo perso la sua innocenza". Diversa invece l'esperienza per Pablo Schils che "ha preso l'aspetto più avventuroso del film, lo ha vissuto come un gioco: gli piaceva ridere, chiacchierare anche con gli altri attori, giocare col cattivo e scherzare. Solo crescendo capirà quello che ha fatto".
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La genesi della storia
L'idea non arriva da uno specifico fatto di cronaca, ma bisogna andare indietro di almeno dieci anni per trovare lo spunto di questo film e risalire ad una sceneggiatura "su una famiglia di immigrati, una madre e due figli", che non avrebbe mai trovato una realizzazione. "Negli ultimi due o tre anni però" - racconta Jean-Pierre Dardenne - "abbiamo cominciato a leggere sempre più notizie su minori non accompagnati che arrivano nei paesi europei e che a un certo punto scompaiono, se ne perdono le tracce. Non è normale che dei giovani arrivino nelle nostre società, dove si vive tutto sommato bene, e che poi spariscano senza lasciare traccia". In quel momento hanno deciso che al centro del loro prossimo film ci sarebbero stati due bambini "il vero motore di questa storia di amicizia".
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Persone, non personaggi
L'altro aspetto fondamentale è che fossero prima di tutto degli individui, non solo dei personaggi: "Non volevamo dar vita a due simboli, due rappresentanti di un gruppo sociale, quello degli immigrati" - ribadisce Jean Pierre - "ci interessava piuttosto mettere in scena la vita di due persone e raccontare una storia che parlasse allo spettatore, in modo da creare un dialogo silenzioso all'interno del quale mettere in discussione alcune delle sue certezze. Usare la semplicità delle storie è forse il modo migliore per farlo". "Meno intrigo c'è maggiore verità ci sarà, più i personaggi diventeranno persone reali", gli fa eco Luc, "Tori e Lakita sono ragazzi, come ce ne sono molti, che vogliono vivere con noi e non certo contro di noi. Per loro è importante riuscire ad ottenere dei documenti per poter vivere una vita normale. Ecco perché era importante portare sullo schermo due individui, non soltanto due simboli o l'immagine di una comunità, che spesso fa paura".
Ma è l'incrollabile fede nel racconto cinematografico a fargli credere che "il cinema possa fare molto e cambiare le cose, spezzando i pregiudizi e i luoghi comuni. Ecco perché è vitale che nelle immagini scorra sempre quella che è la vita vera, la vita di questi due individui". Solo così sarà possibile resistere agli orrori della contemporaneità, concludono i Dardenne, non senza aver prima definito "orribile" l'espressione "carico residuale" con cui nei giorni scorsi il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi ha definito i migranti a bordo delle Ong arrivate a largo delle coste siciliane.