Nel mondo delle lotte familiari non c'è spazio per il colore. Lo spazio che si apre loro intorno è tutto giocato sulla dualità tra bianco e nero, una lotta cromatica di tinte opposte, come opposti sono i clan dei Malatesta e dei Camporeale alle pendici del Gargano. Sono terre desolate, fangose, calpestate da bestiami e ricoperte di un sangue che non smette di scorrere, alimentato dal potere.
Come sottolineeremo in questa nostra recensione de Ti mangio il cuore, il giovane regista Pippo Mezzapesa affonda le mani tra le storie tinte di odio e vendetta tutte italiane per redigere un saggio sul tradimento e sulle redenzione femminile, decolorando ogni fotogramma nelle vesti di un'istantanea fotografica in bianco e nero di un passato torbido, brutale, dove niente e nessuno si salva, nemmeno il cuore.
TI MANGIO IL CUORE: LA TRAMA
Incentrato sulla Quarta Mafia, l'organizzazione meno conosciuta tra quelle criminali in Italia, Ti mangio il cuore parte tra gli altopiani del Gargano per narrare l'eterno scontro di due famiglie rivali: i Malatesta e i Camporeale. La faida tra i due clan viene riaccesa quando Andrea Malatesta, erede della casata mafiosa, e Marilena, moglie del boss dei Camporeale, si innamorano. Si tratta di un amore impossibile da realizzare, non solo perché lei è sposata, ma soprattutto perché proibito. Ed è proprio questo amore tormentato e passionale a innescare la miccia che porterà allo scontro e in seguito a una guerra tra le famiglie.
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RITARDARE LO SPARO DELLA VENDETTA
L'attrazione fatale "è un verme, un verme donna"; un parassita che mangia il cuore sfidando le lotte intestine fino a rigurgitare odio e guerra. Una guerra perenne, tra l'onore alla famiglia e la fedeltà ai propri sentimenti, che Pippo Mezzapesa sfrutta per stabilire le basi fondanti del proprio film. L'eterna storia d'amore tra Romeo e Giulietta si fa canovaccio di partenza per diluire la propria narrazione sulla potenza dell'odio e della vendetta famigliare che tutto prende e acceca, incancrenendo l'anima e svuotando il cuore. Quello attraversato dal protagonista Andrea Malatesta (Francesco Patanè) è dunque un'involuzione dell'eroe romantico verso il soldato vendicatore; un processo interiore a ritroso compiuto lungo compartimenti stagni dall'intensità differente e dal ritmo divergente, che donano all'opera un senso di squilibrio narrativo che la frena e non la conduce allo stesso livello del sua portata visiva. Tralasciando il colpo di scena finale, i punti di svolta di questo gioco all'eliminazione vivono di una certa prevedibilità, ma dove la sceneggiatura tende piuttosto a peccare è nella ritardata concretizzazione di pensieri, progetti, piani di vendetta in azione l'azione. È come se la trasposizione da pensiero a fatto reale rimanga per troppo tempo bloccato in potenza, con il rischio di procrastinare eccessivamente il tocco di un grilletto e il suono di uno sparo. Ne conseguono delle pause narrative altamente descrittive e distensive, che depotenziano il senso di suspense e limitano il potere perturbante nascosto dietro ogni immagine.
L'INCANTO FEROCE DELLA VENDETTA
Dove la parola a volte non arriva, trovando un ostacolo e intraprendendo vie traverse, la forza impattante di ogni fotogramma è un colpo di pistola sparato in pieno volto. A livello estetico Ti mangio il cuore si eleva pertanto a galleria sublime di quadri costruiti con precisa attenzione, dove il fuori campo svolge il ruolo di contenitore angosciante di azioni indicibili. Lo sguardo di Mezzapesa si fa pennello pronto a intingersi di luce e ombra, bianco e nero, per tracciare figure diaboliche e divinità profane. Ogni inquadratura raccoglie le brutture dell'umana violenza per assurgerla a ritratti in bianco e nero di una ferocia ancestrale e primitiva, per toccare la sfera dell'eleganza e della bellezza puramente estetica. Donna peccatrice e madonna penitente, la Marilena di Elodie è il centro stesso di questo continuo conflitto tra luci e ombre, peccato e salvezza. Avvolti da un manto fatto di ombre, i suoi neri capelli diventano magicamente il velo funereo di una donna pronta a piangere i propri amati, per poi correre verso la salvezza e il pentimento. Con tocco semplice, Mezzapesa riesce a enfatizzare questa dicotomia cromatica relegando la propria opera in un passato che ritorna, per riprendersi tutto, anche il colore, lasciando in eredità il dolore e la bellezza.
LA VENDETTA È DONNA
Le donne di casa Malatesta non hanno bisogno di correre, camminare: restano sedute come regine del male, pronte a dare ordini e sentenziare morti. Analogamente alle donne forti a cui sono chiamate a prestare corpo e anima, è la componente femminile a dominare ogni secondo di Ti mangio il cuore, soverchiando così una gerarchia di interpreti maschili ora relegati allo spazio di un'azione che tarda ad arrivare e compiersi. Rispettivamente cervello e cuore della storia, la Teresa Malatesta di Lidia Vitale, e la Marilena Camporeale di Elodie tessono le fila dell'intera opera come delle parche pronte a segnare il destino altrui. Glaciali, e materne, sono anime private dell'amore e degli affetti, racchiuse in corpi immortalati in maniera contrastante da Mezzapesa: perennemente in movimento, alla ricerca di un posto all'interno della nuova famiglia, Marilena; seduta e bloccata in un fare giudicante, Teresa. Ci prova l'Andrea Malatesta di Francesco Patanè a ritagliarsi un ruolo di prim'ordine in questa struttura corale dominata da figure femminili, ma senza riuscirci completamente. I suoi occhi sgranati, di cerbiatto indifeso e ingenuo, colpiscono e attraggono nella sua rete emotiva uno spettatore destinato a essere successivamente respinto da un'involuzione caratteriale che porta l'attore a spingere sull'acceleratore della carica espressiva. Più che mefistofelico, il suo Andrea diventa eccessivo, risultando poco credibile nella traduzione umana della sua perdita dell'anima e nella feroce trasformazione in essere mostruoso.
Sebbene non del tutto perfetto, Ti mangio il cuore merita comunque parole di elogio per il suo coraggio dimostrato nel voler raccontare pagine storiche intinte di sangue con fare nuovo, dedito alla bellezza dell'immagine per sublimare lo scorrere di violenza umana, un cancro dell'anima che arriva fino a un cuore non più da mangiare, ma da defibrillare, per rendere tutto ancora più umano, ancora più vivo, ancora più famigliare.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Ti mangio il cuore sottolineando quanto il film di Pippo Mezzapesa riesca a colpire lo spettatore grazie a una resa visiva ammaliante, forte di una fotografia giocata su un perturbante bianco e nero che tutto prende e tutto mangia, cuore compreso.
Perché ci piace
- La resa visiva giocata sul bianco e nero.
- La performance delle protagoniste femminili.
- La scoperta di Elodie.
- Il coraggio di trattare tali tematiche con fare nuovo.
Cosa non va
- Il dilatamento di certe sequenze.
- Il ritardo nel compiere azioni depotenziando la suspense.