Prima era una messa, ora è un club. La mezzanotte di Mike Flanagan è l'ora perfetta per parlare di mostri o fantasmi, vuoi in un'isola alle prese con i vampiri, vuoi in un hospice per adolescenti malati terminali. Nessun tipo di legame reciproco, comunque: le due ore delle streghe targate Netflix sono prodotti a se stanti e di caratura qualitativa e strutturale diversa. La prima, Midnight Mass, è un capolavoro di decostruzione concettuale del cristianesimo, l'opera finora più completa e complessa ideata da Flanagan, soprattutto perché originale fino al midollo. Questa nuova The Midnight Club, al contrario, rappresenta narrativamente la più "debole", termine che in contesto fa però curiosamente il giro e diventa forza, quasi in abbraccio diegetico con i protagonisti che racconta. Non una serie facile e nemmeno felice, a dire il vero. Ci troviamo in un limbo creativo tra il Decamerone di Boccaccio e Red Band Society: da una parte la necessità di alienazione attraverso le storie, dall'altra il peso della morte che incombe su vite ancora troppo giovani per accettarlo senza angoscia, pacificamente. Però lo fanno, i ragazzi del Brightcliffe, certo non senza conseguenze o a cuor leggero. Ed è infatti il motivo che li porta a unirsi per raccontare e quindi raccontarsi, in un moto terapeutico-oratorio dove, una storia dopo l'altra, la speranza diventa forte quasi quanto l'accettazione, creando un corto-circuito non scontato tra realtà e finzione che merita un'analisi.
L'allegoria della battaglia
Dicevamo, non una serie facile. The Midnight Club segue infatti un gruppo di adolescenti diagnosticati con malattie ormai terminali, giunte alla loro fase d'incurabilità. Su tutte, è il cancro a predominare nell'economia del racconto, ma il fatto è questo: l'opera non vuole trattare il tema con la solita retorica della battaglia, ma scavare soprattutto nell'intimità di una condizione che la maggior parte del pubblico non può obiettivamente comprendere. Questo l'ha già resa agli occhi di qualcuno una serie emotivamente ricattatoria, ma in realtà non c'è manipolazione di alcun tipo e, anzi, si vuole uscire da questa idea di trattare o guardare il malato in modo diverso, anche se poi inevitabilmente c'è un peso relazionale differente in molti aspetti della vita. In particolare, la malattia in quella fase e in quell'età, dove l'esplosione ormonale deve fare i conti con sogni e aspettative da cancellare, amplifica carattere e personalità come una cassa di risonanza. Possono dunque ingigantirsi fragilità e vittimismo, paura e angoscia, ma allo stesso tempo rafforzarsi rabbia e dolore oppure esplodere un grande ottimismo dovuto alla completa realizzazione della condizione personale. Nessuna battaglia, dunque, ma cercare di fare il possibile per assimilare il danno e scegliere come procedere con la testa e con il cuore.
Nel caso dei ragazzi di Brightcliffe e del romanzo originale di Christopher Pike, c'è un rifiuto totalizzante di questa idea conflittuale con la malattia in sé, almeno in quelle terribili fasi terminali, ma in realtà è una sorta di pretesto iniziale per avvicinarsi alle paure reali e ai sentimenti concreti di questi ragazzi apparentemente così "tranquilli" davanti a qualcosa d'immutabile e certo in anticipo sui tempi. Anya è ad esempio il personaggio in cui questa ambivalenza emotiva traspare perfettamente giungendo però ai margini estremi dei poli. È allo stesso tempo la più problematica ma colonna portante del gruppo; la più velenosa ma anche la più sincera; la più strafottente nei confronti della propria malattia ma, alla fine, la più spaventata. Ed è anche una delle poche che riesce a vedere i fantasmi che infestano le mura del Brightcliffe Hospice insieme a Ilonka.
No more hope
Tutto questo è importante per ricordare il tentativo di Ilonka e dell'intero Midnight Club di salvare la vita ad Anya. Il rito suggerito alla protagonista da Shasta non è però quello vero, motivo che peggiora drasticamente la situazione di Anya, che infatti muore di lì a poco. A tenerla ancora in vita in questo ormai vicino alla morte sono letteralmente le storie e i volti dei suoi compagni, che infatti non l'abbandonano mai fino alla fine, aiutandola anche a riaprire gli occhi un attimo prima di un taciuto e spiazzante addio. Dopo aver sentito Mrs. Stanton parlare di una regressione totale della malattia in uno dei pazienti, Ilonka si convince di essere lei la fortunata e proprio in virtù del suo impegno e della sua fedeltà a questa causa soprannaturale. La verità è ben più difficile da accettare, essendo in realtà Sandra ad aver ricevuto inizialmente una diagnosi sbagliata e ritrovandosi ora con l'evidenza di potere continuare ancora a vivere. Nessun magia, dunque. Non ancora. Gli elementi orrorifici della serie sono principalmente legati ai trascorsi del culto delle Cinque Sorelle di Paragon, a un passato talmente sanguinoso e terrificante da infestare il Brightcliffe, per altro casa di dolore e disperazione, cibo preferito dagli spettri che albergano quella dimora.
Ancora manipolata da Shasta, Ilonka si convince nuovamente della bontà del culto naturalista della donna, scoprendo anche la sua vera identità (Julia, unica guarita del Brightcliffe) e facendola entrare insieme a un piccolo drappello di fedeli nell'hospice, per compiere nuovamente il rito. Questa volta scopriamo però il vero obiettivo di Julia: sacrificare le vite dei suoi adepti per continuare a vivere. La Stanton (che nell'ultimo frame scopriamo anche essere stata membro di Paragon) ferma il rito, Julia riesce a fuggire e Ilonka si trova a non credere più a nulla, ormai impossibilitata ad aggrapparsi anche a un solo e flebile filo di speranza, obbligata a scendere a patti e senza compromessi con la sua malattia e una fine vicina e inevitabile.
La terapia del racconto
Più importante di tutto è però ciò che si conclude al tavolo del Midnight Club, dove ogni storia narrata esprimeva i sentimenti e i dubbi e le paure dei rispettivi narratori. Se non si può curare il corpo, almeno lenire l'anima sì, soprattutto aprirla al prossimo attraverso l'orrore che ognuno di essi sta vivendo e condividere con gli altri un pezzo di sé. È il valore catartico e terapeutico del racconto, che allargato al medium e al fine rappresenta il concept portante della serie: riuscire a trattare mediante il genere un tema spinoso e problematico come quello della malattia, cercando di fare del bene proprio attraverso il balsamo delle favole. "Siamo tutti storie", dice qualcuno nello show, ed è vero: ogni giorno che viviamo portiamo avanti il nostro racconto; ogni momento che viviamo arricchisce ciò che siamo, così da poterci donare agli altri sempre più veri e completi, con tutto il bagaglio di esperienze ed emozioni accumulato, sempre aperto e pronto ad essere riempito ancora e ancora e ancora. In una delle sue straordinarie stand-up comedy, Daniel Sloss dice che ognuno di noi è un puzzle a cui manca un pezzo al centro.
L'idea sarebbe quella di riempirlo, trovare quel pezzo mancante per essere o sentirsi completi. Non per forza, non perché ne abbiamo bisogno ma perché vogliamo. Perché sentirsi completi o completati è impagabile, ma allo stesso tempo è sbagliato farlo perché senza quel pezzo crediamo non sia possibile vivere. E cos'è, se non completezza, il momento in cui i ragazzi del Midnight Club terminano un pezzo ciascuno la storia di Ilonka, che per altro parla al contempo di perdersi e ritrovarsi? È amore, affetto, amicizia. È tutto. È tenersi la mano per guardare oltre la battaglia e oltre l'ineluttabile, con la sola consapevolezza di non essere soli e che la morte, soprattutto, è "davvero un motivo del ca**o per smettere di vivere".