C'è un uomo sul posto di lavoro nel XXI secolo. Un lavoro che permette all'uomo di emergere rispetto ai suoi colleghi grazie alla creatività e al talento personale, ma il cui successo affonda le proprie basi nella freddezza della ripetitività, la ricerca della perfezione e l'autodisciplina mentale. Il lavoratore ideale deve tendere all'appiattimento emotivo, ricordando a se stesso la propria (falsa) eccezionalità e trasformarsi, infine, in uno strumento funzionale. Non fare un lavoro disumanizzante, ma disumanizzarsi per fare il lavoro. Una delle prime regole per non mandare in crisi questo modus operandi e mettere da parte la debolezza dell'empatia è quella di tenere separati vita lavorativa e vita privata, il che vuol dire non cercare la soddisfazione che si deve trovare in una nell'altra e viceversa. Lo capite da soli, impresa impossibile.
The Killer (qui la nostra recensione) di David Fincher, presentato in concorso a Venezia 80 e disponibile su Netflix, è un film che parla di un sicario che vive la sua professione esattamente nel modo sopra descritto, rendendolo una sorta di manifesto sociologico per rappresentare come la società capitalista vorrebbe che il lavoratore fosse. La cosa interessantissima che fa il cineasta del Colorado (la patria dei serial killer, guarda caso) è operare questo innalzamento attraverso la sua messa in crisi, raccontando la storia del personaggio all'interno del genere cinematografico più emotivo possibile.
La pellicola con protagonista Michael Fassbender è infatti un revenge movie in cui la vendetta del caso viene scatenata dalla conseguenza di un fallimento sul posto di lavoro tale da intaccare la sua sfera privata, andando così contro una delle prime regole del lavoratore ideale. Ora, per raggiungere il successo / appagamento emotivo, il killer (e quindi il film) dovrà però rientrare nel phisique du role appartenente al lato professionale: distaccato, disinteressato, focalizzato solo sul presente. Un atto difficilissimo che lo porterà a cominciare un percorso di autoconsapevolezza in cui dovrà capire che in realtà tutti siamo vittime di qualcosa.
Working Class Hero
The Killer è il perfetto abito del suo protagonista. Lo segue attraverso ogni stato emotivo che attraversa, avvolgendolo con un ritmo e un montaggio in grado di leggere le sue intenzioni, anticipare le sue azioni e restituire costantemente allo spettatore quel conflitto tra ciò che arde al suo interno e la sua canalizzazione esterna, che è metodica e studiata. Non a caso il personaggio con il volto di Michael Fassbender si confessa solo attraverso il film e il pubblico è l'unico che può ascoltarlo. Quello di Fincher e del suo personaggio è un esercizio sfiancante, ma che diventa la via maestra per raggiungere il successo sia per il sicario che per il regista.
The Killer, la spiegazione del finale: l'insostenibile imperfezione dell'essere
In una Parigi che si sveglia ("come nessun'altra città al mondo") facciamo la conoscenza del lavoratore dai mille nomi, il quale, assecondando il ritmo della capitale francese, comincia a sciorinare numeri, dati demografici, sondaggi scientifici, mentre il film inizia a mettere in mostra la sua grammatica matematica, trovando in essa l'eleganza e la creatività artistica, che è ciò che il suo protagonista cerca a sua volta attraverso la propria filosofia di vita fredda e il proprio processo metodico. Due impalcature altamente strutturate, costruite in parallelo, dove manca qualsiasi tipo di "perché" in modo che a prendersi la scena siano il "come", il "dove" e il "quando". Uccidere, lavorare, fare un film sono come atti visionari frutto di una calcolatrice meditazione, senza nessun coinvolgimento altro. Magari con in sottofondo i The Smiths.
Un ingranaggio improvvisamente s'intacca ed ecco che il ritmo cambia di conseguenza. Il carnefice è divenuto improvvisamente una vittima, anche se egli non è in grado di ammetterlo. La sua prima preoccupazione è infatti quella di estraniarsi anche dal trauma appena subito. Qui inizia il nuovo gioco di The Killer, con il nostro androide che dovrà cominciare un percorso in cui man mano si renderà conto di come egli stesso sia improvvisamente simile a tutte le persone che dovrà uccidere per arrivare al successo. Fassbender è l'anello di congiunzione che tiene tutto l'impianto filmico a galla, ancora una volta interprete straordinario di un altro esemplare di quella categoria di personaggi incapaci di entrare all'interno di un'umanità sofferente perché inconciliabile con le regole del mondo moderno (o anche futuro). Il suo killer è la sintesi dello Steve Jobs che utilizza la tecnologia per correggere i rapporti umani, del David 8 che cerca di ricreare il dono della vita attraverso la riproposizione artificiale e del Brandon Sullivan che riesce ad entrare in contatto con l'altro solamente attraverso una patologica compulsione, mentre, all'apparenza, tutto è perfetto.
Vittime di un Sistema
David Fincher gira un film che vive costantemente in lotta con se stesso, rivelando tra l'altro un cortocircuito funzionale e già usato più volte in tantissimi altri film che mostrano al pubblico il lato più umano di un assassino professionista. Quei film però si "arrendono" dopo che avviene la frattura, mentre The Killer no, piuttosto si alimenta di questa criticità non calcolata e su di essa costruisce la sua forza che è sia semantica che estetica.
The Killer: nei primi 20 minuti c'è tutto il cinema di David Fincher
Succede quindi che la pellicola più volte esplode, regalando delle sequenze magistrali, in cui il regista riesce ad esprimere la bellezza e la ricercatezza del suo stile senza però estremizzarlo, ma succede anche che torni di nuovo meccanica e distaccata così da far presente a ogni piè sospinto come la sua ossessione sia in primis quella di stilare il profilo del lavoratore ideale, talmente inserito nel sistema da poter guardare tutti gli altri dall'esterno. Così calato nella sua parte da potersi ripetere che le vittime del sistema sono anche le sue, senza credersi un bugiardo. Una danza seducente che riflette l'anima del film e quella del suo protagonista, sempre più sovrapponibili, man mano che si scopre come questo ping pong sia solo frutto di un'ostinata volontà di quest'ultimo di sentirsi al riparo.
Il lavoro che il cineasta americano fa con The Killer si rivela in ultima battuta, quando ci presenta una soluzione che arriva dopo una sorta di percorso "anti Fight Club", dal momento che in quel caso da vittime si diveniva carnefici e da schiavi delle proprie emozioni si acquisiva un controllo che permetteva di divenire bombaroli, mentre qui succede esattamente il contrario. Il protagonista continua sulla sua strada ritrovandosi ad ogni passo sempre più vicino alla fragilità di coloro che uccide, fino a rendersi conto, finalmente, di come anche lui sia una vittima del sistema che ha sempre voluto incarnare. La loro libertà è un'illusione, così come lo è la sua sicurezza. Alla fine della via c'è infatti la presa di consapevolezza della crisi del lavoratore ideale del XXI secolo, ingannato dalla falsa certezza di poter essere uno dei pochi finché rispetta tutte le regole, mentre è invece solo schiavo di un ruolo impossibile da mantenere. Il Velo di Maya del capitalismo, una volta sollevato, rivela il suo inganno originale: far sentire speciale e al sicuro, quando in realtà nessuno può esserlo.