"Presumo niente donne." "Oh, sicuramente no. E non solo perché non ci sono candidate valide, ma credo che le donne in generale non siano adatte per alte cariche." "Ah, come mai?" "Be', a volte sono troppo emotive."
In questo primo scambio di battute fra Elisabetta II e Margaret Thatcher in Gold Stick, episodio d'apertura della quarta stagione di The Crown, è racchiusa già tutta la finezza tipica della scrittura di Peter Morgan: l'ironia tanto dissimulata quanto affilata che accomuna i due personaggi, ma pure lo strenuo conservatorismo con cui la neo-eletta Prima Ministra, un attimo dopo aver segnato un primato assoluto nel campo delle pari opportunità, non esita a mortificare l'intera categoria di cui lei stessa fa parte, ricacciandola nello stereotipo di un'emotività esasperata incompatibile con le grandi responsabilità.
È una stilettata beffarda, verso gli spettatori ma pure verso la Regina, che dopo un istante di sbigottimento chiosa sorniona: "Dubito che avrà questo problema con me". Perché in fondo Elisabetta e la Thatcher rappresentano due figure speculari: due donne consapevoli di occupare un posto tutt'altro che abituale rispetto al proprio genere (nel caso della Thatcher, si trattò davvero di una conquista senza precedenti), ma coscienti anche delle qualità necessarie a conservare tale posizione di potere e a gestirla nella maniera più efficace. Prima fra tutte, la capacità di sacrificare istinti e sentimenti individuali sull'altare della ragion di Stato.
La Gran Bretagna di Margaret Thatcher
Margaret Thatcher, pioniera delle donne in politica ma al contempo di vedute ultraconservatrici, da tale ottica ricorda un'altra memorabile protagonista dell'annata televisiva: la spregiudicata antifemminista Phyllis Schlafly incarnata da Cate Blanchett nell'eccellente Mrs. America. In The Crown, il cui quarto capitolo ha debuttato su Netflix il 15 novembre 2020, a prestare il volto alla Lady di Ferro è l'attrice americana Gillian Anderson, che a cinquantadue anni ha inanellato uno dei migliori ruoli di una carriera divisa da sempre fra cinema, teatro e televisione. L'intera stagione, del resto, è ambientata all'epoca del thatcherismo: gli undici anni e mezzo compresi fra il 4 maggio 1979, data in cui la leader dei Tories divenne il Capo del Governo britannico, e il 28 novembre 1990, il giorno dell'addio a Downing Street.
La Margaret Thatcher di Gillian Anderson e la Diana Spencer di Emma Corrin, la giovane moglie del Principe Carlo (Josh O'Connor), sono i due perni sui quali Peter Morgan ha firmato il segmento-capolavoro della serie Netflix dedicata al Regno di Elisabetta II. Da vari punti di vista, gli anni Ottanta si sono rivelati uno dei decenni più vividi e intensi della storia britannica (e della storia personale dei Windsor), e per la prima volta la sovrana di The Crown si trova a dividere la scena con una comprimaria altrettanto incisiva: popolare e contestatissima, più di ogni altro Premier della Gran Bretagna di fine secolo, la Thatcher si è imposta nel nostro immaginario collettivo e ha lasciato una pesante impronta sul tessuto sociale del Regno Unito.
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La Lady di Ferro fra grande e piccolo schermo
Si tratta di un'impronta che il cinema, non a caso, si è incaricato più volte di raccontare, con una prospettiva spesso aspramente critica: il pugno di ferro adoperato dalla Thatcher contro le comunità dei minatori è stato il tema o la cornice di film quali Billy Elliot di Stephen Daldry, Pride di Matthew Warchus e ancor prima il meno noto Grazie, signora Thatcher di Mark Herman. Senza dimenticare, ovviamente, il ritratto offerto nel 2011 da Meryl Streep con una performance da Oscar in The Iron Lady di Phyllida Lloyd, in cui tuttavia la dimensione pubblica di Margaret Thatcher veniva talvolta messa in ombra da quella familiare e privata; e infatti alla pellicola non era stata risparmiata l'accusa di aver ceduto a tentazioni agiografiche.
È il rischio inesorabile e, sul piano narrativo, lo spinoso dilemma che si affronta quando si decide di affidare all'arte (che si tratti di letteratura, cinema o televisione) un personaggio così controverso; responsabile, nel caso specifico, di aver fatto a pezzi i principi-base del welfare state, allargando a dismisura le divisioni già presenti all'interno della società britannica. A questa linea politica la serie fa riferimento in più occasioni, portandola in primissimo piano nell'episodio Fagan, così come succede per altre pagine fondamentali dell'età thatcheriana: dalla guerra delle Falkland al drammatico summit del Commonwealth a Nassau nell'ottobre 1985, teatro delle (presunte) frizioni tra la Regina e la Prima Ministra in merito alle eventuali misure di contrasto all'apartheid.
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La Regina e la sua nemesi
È il cuore di 48 a 1, uno degli episodi più tesi e avvincenti della stagione: una sfida che culmina nel serrato faccia a faccia fra Elisabetta e la Thatcher, consumato attraverso gli sguardi taglienti che Olivia Colman e Gillian Anderson si lanciano come fossero dardi nel loro incontro settimanale a Buckingham Palace. Si tratta di un duello "in punta di forchetta", e ciò nonostante di durezza inaudita: la resa dei conti fra la donna più potente della nazione e la sua sovrana, la cui corona l'ha privata del diritto stesso ad avere un'opinione. Ed è un palcoscenico formidabile per l'autentica antagonista della serie: perché The Crown sceglie esattamente tale direzione e vi si attiene con coerenza, consacrando la Lady di Ferro come il 'mostro' la cui concezione dello Stato non comprende alcun "fattore umano".
La feroce ostinazione esibita dalla Anderson è il frutto del profondo senso del dovere della Thatcher, della radicata convinzione di curare il benessere del proprio paese, anche a costo di mettere da parte l'altruismo. "Nessuno si ricorderebbe del buon samaritano se avesse avuto solamente buone intenzioni: vede... era anche un uomo molto ricco": è la metafora con cui la Thatcher giustifica l'indifferenza verso la popolazione sudafricana, secondo la medesima logica applicata però alla lower class britannica e spinta fino alla poll tax del 1989, l'odioso provvedimento fiscale che avrebbe determinato l'inizio della fine della parabola politica dell'inflessibile Margaret. Nella visione di Peter Morgan, la Thatcher è in sostanza una villainess della peggior specie: una villainess che considera se stessa un'eroina.
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Il meraviglioso 'mostro' di Gillian Anderson
E Gillian Anderson si attiene perfettamente a tale approccio, sfoderando un'interpretazione magistrale: e non solo, o non tanto, per il virtuosismo nel riprodurre l'aspetto e la gestualità della Prima Ministra inglese, ma per la scelta di perseguire un'inusuale "terza via" fra il realismo mimetico e la deformazione grottesca. Intendiamoci, la Margaret Thatcher della Anderson non viene ridotta in alcun modo ad una caricatura, eppure in lei avvertiamo dei tratti che ci appaiono 'artificiali': la tonalità innaturalmente bassa della voce, la compostezza robotica dei movimenti, quella smorfia che le contrae l'angolo della bocca. In qualche maniera, la Anderson sottrae alla Thatcher un quid di spontaneità, sostituendolo con una componente volutamente teatrale.
Ed è forse questa la chiave di lettura della Lady di Ferro di The Crown: un "animale politico" a tal punto astuto e calcolatore da aver subordinato la sua stessa umanità a un'indole performativa che costituisce il suo modus operandi, la formula per tenere sotto scacco ogni avversario. La capigliatura cotonata senza un ricciolo fuori posto, il foulard annodato intorno alla gola, i completi azzurri che ne hanno definito l'icona, indossati come una divisa da guerra: tutto, in Margaret Thatcher, sembra studiato fin nel dettaglio in funzione di una perenne recita. Una recita di cui la donna è protagonista inarrivabile e sopraffina; talmente brava da suscitare ammirazione e sgomento in egual misura. Cosa si può chiedere di più a una villainess?