La banda ci ha preso gusto. In tutti i sensi. Ci ha preso gusto, e non ha smesso affatto. Non ha smesso di lottare contro la precarietà, non ha smesso di scrivere il suo manifesto generazionale impregnato di ironia e di insofferenza, non ha smesso di trovare nuove formule vincenti. Perché, in fondo, Smetto quando voglio è stato un esperimento nell'esperimento, la storia di una reazione nella reazione. Chimica cinematografica allo stato puro. Da una parte la storia di un gruppo di precari che reagisce alle ingiustizie di un'Italia lontana dalla meritocrazia, dall'altra una saga capace di dosare con intelligenza e sagacia tanti ingredienti utili a trovare la formula giusta per una commedia corrosiva. L'ispirato artefice di questa stramba combinazione risponde al nome insolito di Sydney Sibilia, la cui mano ha centellinato buone dosi di comicità al fianco di qualche grammo di rabbia, senza dimenticare un pizzico di spirito pop. Tre anni fa Smetto quando voglio portava con sé una ventata di aria fresca, a sostegno di un coraggio creativo e di una contagiosa voglia di sperimentare, ricaduta poi su Veloce come il vento, Lo chiamavano Jeeg Robot e Mine, ovvero su un cinema italiano diretto da giovani autori fortemente ancorati al concetto di "genere". Con la sua trilogia della rivincita, Sibilia ha utilizzato la commedia come sottofondo, come filo conduttore per tre film appartenenti a categorie diverse.
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Laddove il primo capitolo si configurava come un'avventura di formazione, il secondo si iscriveva tra i caper movie, mentre quest'ultimo Smetto quando voglio - Ad honorem è a tutti gli effetti un escape movie. Tra piani credibili, camuffamenti e un attentato da sventare, l'ultimo atto di questa trilogia fa dell'evasione una necessità per i suoi protagonisti e per gli spettatori. Un pubblico ormai affezionato a cui regalare anche qualche iniezione di necessaria amarezza.
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Fuga da Rebibbia
Dai ristoranti asiatici alla gattabuia, dai benzinai cingalesi alla galera, passando per feste, lusso sfrenato, inseguimenti, assalti ai treni, camuffamenti e scorpacciate di adrenalina. È questa la strana parabola delineata da Smetto quando voglio per i suoi assurdi protagonisti, abitanti di una vera e propria Torre di Babele in cui si incontrano latinisti, antropologi, chimici e archeologi, tutti costretti a reagire alle proprie esistenze frustrate, al loro talento mai riconosciuto. Costretti a reagire, appunto, proprio come all'interno di un processo chimico. È passato un anno da quando Pietro e il resto della banda sono stati incastrati per la presunta produzione di una droga nota come Sopox. Divisi e costretti dietro le sbarre, l'improbabile quanto efficace combriccola di menti brillanti (e sprecate) deve riunirsi al più presto. Sì, perché Sopox non è affatto una sostanza proibita, ma la formula del gas nervino, materia prima di un clamoroso attentato orchestrato dal misterioso e rancoroso Walter Mercurio, apparso nel finale di Smetto quando voglio - Masterclass. Pietro intuisce i piani terroristici del losco antagonista, e decide che solo il ritorno della banda potrà salvare Roma da un'esplosione omicida.
Smetto quando voglio - Ad honorem parte da qui: dal bisogno di ritrovarsi, dal piacere di abbracciarsi di nuovo. Una sensazione di piacevole familiarità che investe subito anche lo spettatore, ormai parte integrante di questo manipolo di geniali, sciagurati nerd. Rivedere Pietro e i suoi discorsi motivazionali, ritrovare la goffaggine di Alberto, la parlantina di Mattia e le lagne di Bartolomeo innesca un immediato senso di appartenenza. Merito di un ottimo lavoro di scrittura, evidenziato da battute pregnanti e dalla solida caratterizzazione dei personaggi, mai come questa volta equilibrati e ben gestiti nella coralità. Ognuno è utile e provvidenziale a suo modo, ognuno usa il proprio, strambo talento per un fine comune. Più affidato ai dialoghi che alla comicità slapstick del secondo capitolo, Smetto quando voglio - Ad honorem chiude il cerchio di una trilogia solida, legandosi molto bene non solo al suo predecessore, ma anche al primo film saga. Il tutto raccontato con un tono scanzonato che non disegna persino momenti di eroica epica.
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Reagire al Male
Lo spirito di Syndey Sibilia è sempre stato irriverente e metacinematografico, consapevole di essere al timone di una saga parodistica, in grado di giocare con i generi e con un citazionismo divertente, divertito e molto, molto pop. Una vocazione confermata soprattutto dalla origin story dedicata ai villain della serie (il Murena dell'ottimo Neri Marcorè e Mercurio del meno ispirato Luigi Lo Cascio), che sembra uscita direttamente da un cinecomic. Le ragioni del Male vengono così spiegate ed esplorate, creando zone grigie dove ogni motivazione ha il suo motivo d'esistere. Smetto quando voglio: Ad honorem, con i suoi luoghi simbolici e il suo messaggio amarissimo sull'Italia, è forse il capitolo "più impegnato" della saga. Il che non lo allontana mai da un irresistibile disimpegno. Nel sorriso ghignante di questo film c'è la rabbia dei talenti sprecati, c'è il fastidio orticante nei confronti degli arrivisti e dei servili, c'è una presa di coscienza che non diventa mai resa. No, perché Smetto quando voglio è una saga reagente al male, è un processo chimico necessario per la commedia italiana capace di raccontare un pezzo di Paese (la generazione dei talenti sprecati) tirandone fuori una morale costruttiva e mai retorica: non accontentarsi, non abbassare l'asticella delle proprie aspettative, farsi valere, urlare e dimenarsi, se necessario. Per reagire ad un'Italia che ha barattato l'educazione con la debolezza, una laurea con un parcheggio, il talento con la furbizia , il desiderio con la disillusione. "Smettiamo di subire, e prendiamoci quello che vogliamo". Forse è questa la formula giusta. Forse basta solo questo per diventare piccoli eroi.
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4.0/5