Noi non siamo più ora la forza che nei giorni lontani muoveva la terra e il cielo: noi siamo ciò che siamo, un'uguale tempra di eroici cuori infiacchiti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà di combattere, cercare, trovare e non cedere mai.
Cade il cielo sull'uomo in smoking. Crollano le case d'infanzia nei ricordi di quell'orfano diventato un'arma al servizio di sua maestà, sul ragazzo adottato dall'Inghilterra per diventarne perfetta, preziosa eppure sacrificabile pedina. Precipitano i corpi, si sfiancano i polmoni, sanguinano i muscoli, fanno male le braccia, fallisce la mira. Skyfall ci conduce sin dal titolo in un turbinio diretto verso il basso, pronto a destabilizzare le storiche certezze di un uomo irreprensibile, a sporcare con il dubbio e con il dolore l'icona solitamente scintillante e glamour di James Bond. L'uomo che si presenta prima per cognome e poi per nome, che ogni volta ci tiene a ribadire con fermezza la sua identità, forse perché per il mondo non è altro che un numero. Con il suo primo film sull'agente segreto più celebre di sempre, Sam Mendes chiude in cantina il lato infallibile e patinato di 007 e, dotato di martello pneumatico per i temi forti e di pennello per l'eleganza artistica della messa in scena (ricordiamo il lavoro notevole del "solito" Roger Deakins), scava senza pietà dentro l'icona bondiana. Ne viene fuori un un'opera complessa, che va molto oltre l'action movie, che non si accontenta di fermarsi allo spietato ritratto del suo protagonista di colpo fallibile, ma si allarga al mondo di cui fa parte. Grazie ad una riflessione complessa e lucida sulla natura del Male moderno, mellifluo come il terrore, invisibile come il digitale, Skyfall fa di James Bond il filtro attraverso cui avvertiamo il disagio e il disorientamento degli eroi fuori tempo. Vincitore di due Premi Oscar (Miglior Canzone e Miglior Montaggio Sonoro), il terzo film della saga con Daniel Craig nello smoking di Bond destabilizza le storiche certezze del personaggio creato dalla penna di Ian Fleming. Succede quando la capitale dell'Inghilterra diventa l'ombra, ovvero quella zona oscura in cui è difficile scindere i nemici dai nemici, il Bene dal Male, il dovere dall'amore. Senza perder tempo, Skyfall si apre con un inseguimento capace di coinvolgere qualsiasi mezzo di trasporto e di sgualcire appena la camicia di un Bond che, dopo faticose peripezie, viene colpito da un proiettile.
Ancora una volta da una donna. Dopo il tradimento di Vesper, un altro duro colpo femminile per il nostro, questa volta poco sopra il cuore. Così 007 affonda nel vortice della colonna sonora sinuosa di Adele, sprofondando in una morte apparente, tra titoli di testa evocativi e penetranti come una pallottola nel petto. È tutto qui il grande merito di Sam Mendes: nel cambio di prospettiva. Per mezzo secolo abbiamo visto James Bond puntare verso di noi e sparare nel mirino, facendo sanguinare lo schermo. Questa volta succede il contrario. Il bersaglio è lui, il sangue è il suo. Oggi, a 5 anni esatti dall'uscita di Skyfall nei cinema italiani, siamo qui a scavare nei meriti di quello che è forse il miglior Bond degli ultimi decenni. Oltre le Aston Martin scintillanti, gli orologi alla moda e i Martini mescolati, non agitati, dentro il fango di un eroe con un grande hobby: la resurrezione.
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James Bond Rises
L'agente segreto che si specchia nel Cavaliere Oscuro. James Bond che ricorda vagamente Bruce Wayne. Antiche ville d'infanzia, automobili multiaccessoriate, eroi stanchi, genitori surrogati. No, non sono solo suggestioni. No, non sono solo coincidenze. Sam Mendes ha dichiarato più volte di essersi ispirato al Batman di Christopher Nolan nella sua scrupolosa ispezione dell'icona bondiana. Per questo Skyfall analizza l'uomo partendo dalla sua scomposizione. È finito il tempo degli eroi irreprensibili, ha inizio il tempo delle paure, dei traumi e dei risentimenti, così il 23esimo film bondiano resetta la sua spia, come se il suo finto decesso servisse a giustificarne la resurrezione. James Bond Begins o James Bond Rises? Entrambe le cose. Mendes ci porta alle origini del suo ego, giustifica la sua devozione alla causa, facendo della risalita e del ritorno due percorsi necessari per arrivare all'uomo dietro l'icona. Skyfall mette in scena due movimenti essenziali: va dentro Bond e va indietro nella sua vita. Nel farlo ha il coraggio di mostrarci un Bond umano e lontano anni luce dall'antica e inscalfibile perfezione. Il Bond di Daniel Craig, più rozzo e segnato di qualsiasi altro a partire dai lineamenti dell'attore, è malmesso e malconcio, ha occhi iniettati di fatica e una barba incolta, persino leggermente incanutita. È un Bond che prova dolore ancor prima di fare male agli altri, con il quale si entra più facilmente in empatia. Nello stesso anno in cui Bruce Wayne si rialza dalla sua schiena spezzata e cinque anni prima che Logan - The Wolverine mostrasse i segni logranti del tempo e della malattia sugli eroi, Skyfall fa dell'estrema difficoltà la forza della sua analisi spietata.
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Un nemico fluido
Un agente del caos al sevizio di sua maestà. Lo potremmo definire così il mellifluo Raoul Silva, interpretato da un inquietante Javier Bardem. Gemello eterozigote e incattivito di Bond, l'ex agente è un covo di rabbia pronto a scatenarsi contro tutto l'MI6 e a svelarne ogni scomodo retroscena, ogni singolo peccato. La riuscita di questo antagonista perverso, un demone platinato dalla grande abilità dialettica è dovuta alla sua complessità. Perché, a ben guardare, ci sono almeno tre livelli di lettura di Raoul Silva. Il più evidente è quello di un nemico subdolo nel voler cercare dei punti di contatto con Bond, nel sentirsi "uno degli ultimi topi" rimasti in vita assieme a 007. Silva tenta Bond, lo accarezza, lo irride, è un villain che gioca la sua partita soprattutto sul campo psicologico e non sul piano fisico. Il secondo fa di lui l'altro lato della medaglia dell'essere un agente. Silva non è un folle scellerato, ma un uomo ferito, tradito, stanco di essere percepito come un individuo sacrificabile per gli interessi di M. Silva è la reazione plausibile che Bond non ha avuto. Infine, questo terrorista che ha nella Rete il suo habitat naturale rappresenta il male moderno, quello fluido, digitale, immateriale. Quello che le straordinarie abilità fisiche di Bond non possono fronteggiare. Da qui nasce la frustrazione di un uomo messo di fronte ad un mostro simile a lui eppure inafferrabile.
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M come madre, M come maledizione
Ha il volto regale, algido e imperscrutabile di Judi Dench, ma non ha un nome. Laddove i suoi agenti sono solo numeri seriali, lei è soltanto una lettera. M. ha le fattezze di Dench dal 1995, ovvero dalla sua prima apparizione in Goldeneye, e in Skyfall diventa il fulcro narrativo dell'intero film. È lei il primo bersaglio di Silva, è lei ad essere sotto accusa quando i metodi e la sicurezza dei servizi segreti britannici vengono messi in discussione, è lei a dare a Bond una seconda possibilità nonostante 007 ritorni dalla morte del tutto inadeguato alla sua impresa. Mai come in questo caso la lettera M si presta a tante interpretazioni: M come manipolatrice, M come maledizione, M come madre. Sì, perché Skyfall fa di tutto per costruire M. come genitrice putativa di Bond e Silva, colei che li ha accolti, allevati, addestrato, e poi ne ha sfruttato i traumi a suo favore e a suo vantaggio. In bilico tra la condanna e l'empatia, Mendes tiene il personaggio di Dench sul filo, sospeso tra la devozione testarda di Bond e il rancore impetuoso di Silva. Ecco, dunque, uno dei più grandi meriti di Skyfall: andare oltre la fredda missione degli agenti per insinuarsi nel cuore ferito degli uomini, nell'anima sgualcita degli individui travestiti solo e soltanto da numeri.