Segreti di famiglia
Secondo Ibsen togliere all'uomo la menzogna della sua vita vuol dire derubarlo in gran parte della felicità. Se poi il mentire diventa occultamento e oblio di un passato agghiacciante e insostenibile, la mistificazione assume i contorni di un atto quasi pietoso, carico di misericordia verso se stessi e le ferite riportate. Un processo sottilmente pericoloso, questo, che Lena conosce molto bene e applica con ostinata lucidità ogni giorno della sua vita di adulta. Nell'innocenza spensierata delle figlie e nel solido amore del marito Johan vede il riflesso di un futuro a lungo anelato e poco importa se, di tanto intanto, il passato torna ad annebbiare una fotografia famigliare finalmente nitida. Per lei i ricordi hanno l'eterea consistenza del fumo, leggeri, sfocati, facilmente diradati dalla fresca ventata di un presente appagante, eppure basta un piccolo imprevisto per trasformare questa indefinita assenza nella pesante presenza di una realtà troppo a lungo taciuta. Così, in una mattina non diversa da molte altre, una telefonata costringe Lena a incrociare nuovamente il suo sguardo con quello di una bambina ferita e abbandonata. L'immagine per troppo tempo celata della sua infanzia rinnegata la raggiunge attraverso la voce morente della madre: un suono stridente, dimenticato, quasi estraneo ma al quale è impossibile sottrarsi. Per questo motivo, in un rimando di attrazione e repulsione, la giovane donna accetta di compiere a malincuore un lungo viaggio catartico all'interno di un passato fatto di brutalità, degrado e solitudine. Una discesa negli inferi grazie alla quale troverà la straziante consapevolezza di un amore al disopra di tutto.
Dopo trent'anni passati a essere oggetto di ripresa, Pernilla August fa il suo esordio alla regia con un film intimo e doloroso sulla solitudine famigliare idealmente dedicato al "maestro" Ingmar Bergman. Dalle assi del palcoscenico al set cinematografico, attrice e regista hanno intessuto per molti anni un intenso dialogo intorno all'oscura e misteriosa materia dell'amore genitoriale. Una lezione che la August non si è certo limitata a imparare a memoria come una scolaretta zelante e condiscendente, ma che ha interiorizzato fino a ottenere una prospettiva e un'applicazione del tutto personale. In questo senso il suo Beyond, se pur intensamente intriso di un background culturale riconoscibile, si avvia lungo viali narrativi indipendenti. Utilizzando la sfrontata menzogna ibseniana come luogo dove occultare dolore e vergogna, la neo regista si addentra nella debolezza e nella mediocrità di una coppia egoisticamente immolata al dio dell'alcol. Lontana anni luce dagli ambienti borghesi protagonisti della letteratura e del teatro svedese di fine ottocento - inizi novecento, s'inginocchia di fronte ad una disperazione muta e dignitosa accettando di sporcarsi con le bassezze umane fino a diventare tutt'uno con la sua protagonista nell'attesa della catastrofe definitiva. Grazie al suo sguardo indagatore e a una forza narrativa che non ammette facilitazioni, Lena giovane e Lena adulta vivono della stessa anima, si nutrono delle medesime umiliazioni mentre le loro esistenze continuano a essere cadenzate da un rimando di ricordi sempre più insopportabile. Anche il dolore, fotografato con la naturalezza di un cinema che va diretto al cuore del problema senza deviazioni accattivanti, diventa scandalosamente seducente, addirittura necessario affinché la piccola "riparatrice", materna e responsabile, si trasformi finalmente in una adulta consapevole del proprio passato, libera dai sensi di colpa e dall'oppressiva pesantezza delle sue parole. Asciutto, essenziale e drammaticamente realista, il cinema della August non offre mai il ruolo rassicurante di osservatore esterno. La stessa macchina da presa non registra, ma racconta, non assiste ma sperimenta e, in un gioco d'inseguimenti sempre più serrati, i volti sono l'oggetto del desiderio di un obiettivo non famelicamente curioso ma bisognoso di comprendere. Noomi Rapace, già nota al grande pubblico per la Trilogia Millennium tratta dai romanzi di Stieg Larsson, si presta con naturalezza ma non certo docilmente a questo dialogo intenso tra madre e figlia, entrambe arroccate sulle reciproche negazioni. Privata della maschera da vendicatrice, lotta ferocemente con la vita e le emozioni. Così il corpo, nella sua interezza, si trasforma in strumento di sperimentazione, veicolo di dolore e mezzo narrativo di forte intensità, mentre il volto, completamente denudato e privo di trucco, si fa simbolo non solamente di uno stile cinematografico ma di una sensibilità capace di elargire sul finale un sussurro di speranza senza lasciarsi tentare mai da un artificioso e fin troppo innaturale happy end.
Movieplayer.it
4.0/5