"Lei non crede nel paradiso? Una suora?" "Se non ci credete voi, perché dovrei io?" "Se lo facesse lei, lo faremmo anche noi." "Se lo facessi io, forse voi non dovreste. Qualcuno deve dare l'impressione di credere."
Le parole di suor Hermann Marie, che presta servizio da infermiera in un ospedale religioso, si abbattono sferzanti su Jack e Babette Gladney, distesi sui propri capezzali in una delle scene conclusive di Rumore bianco. Sopra di loro, appesa alla parete, campeggia una stampa di Papa Giovanni XIII e di John Fitzgerald Kennedy che si tengono per mano, sullo sfondo di un paradiso posticcio: uno pseudo-santino sfacciatamente kitsch, inesorabile nota stonata nel grigio squallore del ricovero in cui la coppia è stata accolta dopo le ferite riportate nel corso di una bislacca sparatoria. Babette, il volto rischiarato dal sorriso gioviale di Greta Gerwig, vorrebbe trovare conforto nella pacchiana artificiosità di quell'immagine, ma suor Hermann non è in vena di offrire soluzioni consolatorie alle angosce della donna e di suo marito Jack.
Ricordati che devi morire
È il pragmatismo schietto e brutale della monaca, che sotto il velo mostra il volto dell'icona fassbinderiana Barbara Sukowa, a smascherare l'illusorietà della religione, ennesimo appiglio a cui aggrapparsi per non precipitare nel baratro dell'horror vacui: "Il nostro compito nel mondo è credere in cose in cui nessun altro crede. Se abbandonassimo quelle credenze, il genere umano si estinguerebbe. Ecco perché siamo qui, una piccola minoranza: se non fingessimo di credere a queste cose, il mondo crollerebbe! L'inferno è quando nessuno crede". E appunto da quest'inferno si affannano a raggiungere una via d'uscita Jack e Babette, con una comune caparbietà venata di disperazione: lui, esimio docente universitario, provando a razionalizzare la propria paura della morte; lei, istruttrice di fitness, cercando rifugio in un farmaco sperimentale chiamato Dylar, all'origine del progetto vendicativo di Jack.
Prima il tentativo (fallito) di eliminare l'infido ricercatore Mr. Gray (Lars Eidinger) e, subito dopo, il confronto con suor Hermann sanciscono, per Jack e Babette, una fragorosa epifania. Colpiti entrambi dalla medesima pallottola, i due coniugi vedono il temutissimo angelo della morte sfiorarli in maniera sorprendentemente ridicola: non a caso la sezione finale del film di Noah Baumbach vira verso i toni grotteschi tipici di una black comedy dei fratelli Coen, sminuendo il dramma alla radice del racconto mediante l'assurdità della farsa. E pochi minuti più tardi, l'invettiva della religiosa tedesca infrange i simulacri offerti da una realtà anestetizzata: quella realtà che si concretizza nella cittadina universitaria di Blacksmith, microcosmo bucolico in cui Jack e Babette hanno scelto di condurre la loro esistenza con i quattro figli, in perfetta adesione al modello borghese dell'American way of life.
Rumore bianco, la recensione: Noah Baumbach guarda al passato e racconta il presente
Don DeLillo secondo Noah Baumbach
Non era un'impresa facile trasporre sullo schermo Rumore bianco, pubblicato nel 1985 da Don DeLillo e opera della consacrazione dell'autore newyorkese, uno fra i maestri del postmodernismo, nell'Olimpo degli scrittori americani del ventesimo secolo. Non era facile perché Rumore bianco, considerato tutt'oggi il capolavoro di DeLillo insieme al monumentale Underworld, è un romanzo densissimo, diviso tra i flussi di coscienza dell'io narrante - qui incarnato dall'ottimo Adam Driver, con la sua verve intrisa di goffaggine - e una fitta serie di dialoghi, in cui le riflessioni filosofiche sul significato della vita e della morte si mescolano alla banalità esasperata del quotidiano. E perché si tratta di un romanzo in cui la dimensione narrativa, imperniata sull'episodio cruciale della trama ("l'evento tossico aereo", che corrisponde al titolo della sezione centrale del libro), si stempera in un andamento via via più rapsodico e frammentario, fino alla "resa dei conti" in prossimità dell'epilogo.
Per Noah Baumbach, la cui filmografia era interamente costituita da soggetti originali e talvolta di matrice più o meno autobiografica (da Il calamaro e la balena al precedente, magnifico Storia di un matrimonio), Rumore bianco è inoltre la prima regia basata su un adattamento dalla letteratura: un adattamento realizzato da Baumbach con sostanziale fedeltà allo spirito del libro di DeLillo, ma riuscendo a interpretarlo con intelligenza e a riproporlo attraverso un efficace approccio stilistico. Operazione destinata in partenza a non replicare il plebiscito che aveva accolto tre anni fa Storia di un matrimonio: il plauso per questa nuova pellicola, selezionata come film d'apertura del Festival di Venezia, è stato infatti tutt'altro che unanime. Eppure, con la sua commistione fra vortici di paranoia e un umorismo surreale, il Rumore bianco firmato e diretto da Baumbach ci restituisce quella percezione della realtà come un caleidoscopio a cui si cerca di conferire ordine e senso.
Rumore bianco, Adam Driver: "Il mio personaggio? Un uomo stressato che cerca di non sembrarlo"
"Essere folla": tutti insieme appassionatamente
Un obiettivo che contraddistingue gli esseri umani, portati per loro stessa natura a fare fronte comune nella speranza di esorcizzare la morte, a costo di rifugiarsi nel più atroce conformismo. È lo stesso Jack, massima autorità accademica nel campo degli studi hitleriani, a illustrarcelo nella sua enfatica dissertazione sul fascino dei totalitarismi: "Le folle accorrono, si eccitano, toccano e premono, bramose di farsi trascinare... be', questo non è ordinario? Lo sappiamo tutti: abbiamo fatto parte di quelle folle!". Ed è forse un meccanismo analogo che ci spinge ad aggrapparci a un consumismo tanto sfrenato quanto, in fondo, rassicurante: era uno dei nuclei del romanzo di Don DeLillo, e Noah Baumbach riesce a renderlo mirabilmente sul piano visivo grazie alle scenografie di Jess Gonchor e Claire Kaufman, con quel coloratissimo supermercato in cui ogni reparto è dominato da una squillante tonalità cromatica.
Del resto, quale spazio come un supermercato, il non luogo per antonomasia della contemporaneità, risulta altrettanto emblematico di una normalità anonima, fasulla, priva di identità? Se nelle sue pagine, scritte nel bel mezzo dell'età reaganiana, DeLillo tracciava una feroce satira del vuoto insito nella società dei consumi, Baumbach si affida infine alla forza dissacrante della parodia e al genere cinematografico che, più di ogni altro, rivela il proprio carattere artificioso: il musical. Ecco dunque che sui titoli di coda la famiglia Gladney e i colleghi di Jack si ritrovano di nuovo nello spazio del supermercato, teatro di un'irresistibile coreografia al ritmo della trascinante New Body Rhumba, realizzata dagli LCD Soundsystem recuperando le sonorità synth-pop degli anni Ottanta e l'irriverente nonsense dei Talking Heads (nei versi c'è perfino un "Panasonic" ripetuto in maniera ossessiva, a richiamare il titolo scelto in origine da DeLillo): uno degli explicit più brillanti di un'intera annata di cinema.
Bizzarri, nevrotici, innamorati: gli irresistibili antieroi del cinema di Noah Baumbach