"In un certo senso, egli era come la nazione in cui viveva: aveva tutto troppo facilmente. Però lui lo sapeva, almeno". L'incipit del racconto scritto da un giovane Hubbell Gardiner, il protagonista di Come eravamo, rispecchia la natura del suo stesso autore: colto, altoborghese, bello, privilegiato in ogni maniera possibile (in America si direbbe WASP: anglosassone bianco protestante), ma con un'intima consapevolezza della propria condizione di privilegio in un paese in cui non tutti godono della stessa fortuna. È una consapevolezza che trapela da molti dei personaggi interpretati in quasi sei decenni di carriera da Robert Redford: l'incarnazione più perfetta del cosiddetto all-American boy, con quel volto angelico da eterno "bravo ragazzo", ma anche della coscienza morale di una nazione dilaniata da uno strisciante sentimento di incertezza.
Un divo d'altri tempi nell'America della New Hollywood

Del resto Charles Robert Redford Jr, nato a Santa Monica il 18 agosto 1936, era salito alla ribalta come attore nel periodo a cavallo tra due fasi ben distinte nella storia del cinema americano: il tramonto dell'età classica e l'avvento della New Hollywood. Con quella bellezza luminosa e il suo charme spontaneo e disinvolto, Robert Redford poteva apparire l'ideale erede di icone della generazione precedente, come Gary Cooper o Cary Grant: basti vederlo impegnato in graziose boutade a sfondo amoroso con Jane Fonda in uno dei loro primi successi, A piedi nudi del parco di Gene Saks, del 1967. Ma l'America tutta, e per sineddoche anche l'industria hollywoodiana, erano alle prese con un cambiamento profondo, segnato dall'insorgere di nuove inquietudini: c'era ancora spazio per il viso 'pulito' e il fascino da divo d'altri tempi di uno come Robert Redford?

È emblematico in tal senso uno dei suoi pochi, grandi ruoli 'mancati': il Benjamin Braddock de Il laureato. Redford avrebbe voluto disperatamente recitare in quel film, ma si scontrò con il netto rifiuto di Mike Nichols: "Gli dissi: 'Non puoi interpretarlo; non potresti mai interpretare un perdente'. E Redford rispose: 'Che significa? Certo che posso interpretare un perdente'. E io gli dissi: 'Ok, sei mai stato mandato in bianco da una ragazza?', e lui mi rispose: 'Cosa intendi?'". L'aneddoto raccontato dal regista non potrebbe spiegare più chiaramente il paradosso della parabola artistica di Redford: una star di bellezza cristallina, dallo sguardo placido e rassicurante, in un momento storico in cui i giovani americani (e non solo) trovavano molto più facile identificarsi nelle insicurezze da "uomo qualunque" di un Dustin Hoffman o nelle tensioni sotterranee espresse da Jack Nicholson, Gene Hackman e Robert De Niro.
Dalle avventure di Sundance Kid al sodalizio con Sydney Pollack

Ma all'interno della New Hollywood, sinonimo di un cinema americano caratterizzato da una marcata impronta autoriale e da innovazioni - stilistiche e tematiche - semplicemente impensabili fino a pochi anni prima, c'era posto anche per Robert Redford: un ultimo modello di eroe romantico e 'gagliardo', come l'irresistibile bandito Sundance Kid che in Butch Cassidy di George Roy Hill, trionfale buddy western del 1969, affiancava Paul Newman, non a caso l'attore più vicino all'immagine divistica di Redford; o il carismatico truffatore Johnny Hooker de La stangata, il popolarissimo film che nel 1973 avrebbe visto le due star riformare la loro storica accoppiata ancora una volta sotto la regia di Hill, nonché la pellicola che sarebbe valsa a Redford la sua unica candidatura all'Oscar in qualità di interprete.

Non è un caso, allora, che la sua consacrazione sia avvenuta lavorando appunto con registi che non aderirono appieno ai canoni della New Hollywood, ma mantennero un certo legame con il cinema classico americano, rielaborandone alcuni elementi secondo una sensibilità adeguata ai tempi e innervandoli di una soffusa amarezza: George Roy Hill, innanzitutto, e ovviamente Sydney Pollack, il cineasta che più e meglio di chiunque altro ha saputo veicolare l'immenso star power dell'attore e la sua capacità di costruire personaggi credibili con una recitazione misurata e sotto le righe. Un sodalizio, quello fra Redford e Pollack, inaugurato nel 1966 da Questa ragazza è di tutti e proseguito con enorme successo con il western crepuscolare Jeremiah Johnson nel 1972 (in italiano Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!), Come eravamo, I tre giorni del Condor e Il cavaliere elettrico, senza dimenticare nel decennio seguente La mia Africa, melodramma sentimentale del 1985 con Meryl Streep.
Gli eroi imperfetti di Robert Redford, da Come eravamo a All Is Lost

Per il pubblico dell'epoca, e per quello di ogni generazione a venire, Robert Redford è stato - e rimarrà - in primo luogo questo: Hubbell Gardiner, il simulacro di un idillio romantico troppo sublime per resistere alle bordate della società e della politica, in Come eravamo del 1973, in cui la quieta malinconia di Redford è complementare alla vibrante intensità della Katie Morosky di Barbra Streisand; Jay Gatsby (chi meglio di Redford?) nella trasposizione de Il grande Gatsby diretta nel 1974 da Jack Clayton; Joseph Turner, analista della CIA costretto suo malgrado a vestire i panni dell'eroe solo contro tutti ne I tre giorni del Condor del 1975, pietra miliare nel filone dei thriller di paranoia; e Bob Woodward, coraggioso reporter del Washington Post, impegnato insieme al Carl Bernstein di Dustin Hoffman a far luce sullo scandalo Watergate in Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, del 1976.

C'è senz'altro un trait d'union fra questi e alcuni dei "ruoli della maturità" di Redford, come il campione di baseball Roy Hobbs ne Il migliore, dramma sportivo di Barry Levinson del 1984, o il giornalista Warren Justice, di cui si innamora la reporter Michelle Pfeiffer in Qualcosa di personale del 1996: sono figure irrimediabilmente positive, con una sensibilità spiccata che lascia però intuire anche spiragli di fragilità. Robert Redford non è mai stato un trasformista, né tantomeno un istrione, come la maggior parte dei "mostri sacri" della sua stessa fascia anagrafica. Al contrario, alla radice dell'amore del pubblico per Redford c'è stato il fatto di riconoscerlo in tutti i suoi personaggi, di farci accogliere ogni volta dal suo sorriso rasserenante, dall'azzurro limpido e sincero di quegli occhi che, pure con l'avanzare dell'età, avrebbero mantenuto intatta la propria luce: basti rivederlo nei suoi film più recenti, dalla superba prova da 'solista' in All Is Lost al delicato Old Man & the Gun del 2018.
Un regista da Oscar, fra sensibilità e impegno politico

Tale è stato il carisma di Robert Redford, e tanto grande rimarrà rivedendo le sue performance, che talvolta si rischia quasi di darne per scontato il talento, se non si tiene conto che quell'underplaying era un registro recitativo ben calibrato e dall'efficacia infallibile. E se il Redford attore ha sempre saputo cogliere le sfumature più sottili dell'animo umano, altrettanto ha fatto il Redford regista: a partire da quel miracoloso esordio dietro la macchina da presa, nel 1980, con il dramma familiare Gente comune, in cui rappresentava con pathos misurato e mai ricattatorio le dolorose dinamiche fra l'adolescente Timothy Hutton e una coppia di genitori in lutto, interpretati da Donald Sutherland e Mary Tyler Moore. Un'opera prima magnifica, che avrebbe fatto guadagnare a Redford il Golden Globe e l'Oscar come miglior regista, seguito nel 2002 dall'Oscar alla carriera.

Dopo Gente comune, sarebbe tornato in cabina di regia per altri otto lungometraggi: talvolta storie dal respiro classico, come In mezzo scorre il fiume (1992) e L'uomo che sussurrava ai cavalli (1998); in altri casi incentrate sulla società contemporanea e le sue contraddizioni, come per l'acclamato Quiz Show (1994) e Leoni per agnelli (2007), in cui si confrontava con i nodi irrisolti dell'America post-11 settembre. Quell'America di cui Robert Redford, da attore e ancor più da regista, non ha mai mancato di celebrare lo spirito liberal e progressista: non attraverso una facile retorica, ma considerandone sempre la natura complessa e problematica, come avrebbe dimostrato fino alle sue ultime pellicole, The Conspirator e La regola del silenzio. Tutti tasselli di un percorso costruito, anno dopo anno e con ammirevole coerenza, da una delle personalità più importanti e incisive che il mondo del cinema abbia mai conosciuto.