Recensione Hopper: In His Own Words (2012)

L'Hopper del 2007, quello dei primi anni Settanta e quello di tante sue storiche interpretazioni si sovrappongono in un mosaico incompleto, ma dal forte impatto emotivo, in cui la regista traduce l'animo inquieto e tormentato del grande artista.

Ribelle suo malgrado

"Non ho mai voluto essere un ribelle. Mi piaceva lavorare nel sistema". Un'affermazione che suona strana, quasi paradossale, se pronunciata da chi, della ribellione, è stato un emblema: quel Dennis Hopper che, con il suo Easy Rider, ha aperto perfino la strada al largo consumo di cocaina, una responsabilità che qui, nel documentario di Cass Warner, si sobbarca fino in fondo. E' un Hopper che si guarda indietro, che ripensa alla sua carriera e ai suoi sogni di gioventù, l'Hopper immortalato dalla regista in un'intervista del 2007. Ma la narrazione si dipana parallelamente su altri binari: quello delle scene più potenti e famose dei suoi film, certo, ma anche quello di una lunga riflessione, espressa agli albori degli anni Settanta, in cui il Dennis ancora un po' naif e pieno di ideali parla di sé, dell'industria cinematografica, del segno che vorrebbe imprimere alla propria esistenza.

E' un mosaico a cui mancano molti pezzi, quello composto dalla nipote di Harry Warner, storico fondatore della major, e non a caso il film si apre con un avvertimento proprio sulla sua natura di work in progress. Ma, nonostante questo, il ritratto intimo e sommesso che la regista traccia va aldilà del personaggio, e della persona, e abbraccia una grossa fetta della storia del cinema americano, ricordandoci com'era, come si sperava che diventasse e come uno dei suoi protagonisti lo ripensava, appena pochi anni fa. L'Hopper anziano torna con nostalgia ai suoi esordi di diciottenne, al fianco di mostri sacri come James Dean, la cui morte, durante le riprese de Il gigante, lo segnò profondamente, e che ancora lo fa emozionare. Ma è con una buona dose di autoironia che rievoca gli screzi con Henry Hathaway, il regista responsabile della sua esclusione da Hollywood ma a cui poi, con la consapevolezza e l'onestà che solo l'esperienza può garantire, ammetterà di somigliare, proprio in quelle metodologie di lavoro che, agli inizi, gli erano tanto avverse.
Era impensabile costruire un omaggio a Hopper senza soffermarsi sul film che con più forza ha impresso un segno nella sua carriera. Ma, nel parlare di Easy Rider, la regista ci parla non tanto della sua, già ben nota, eredità culturale, ma sceglie di compiere un percorso a ritroso, indagando le scelte e le intenzioni che hanno portato il capolavoro di Hopper a diventare quello che è. E così, passando per The Trip, film indipendente che già conteneva in sé il germe delle istanze che si sarebbero tradotte, di lì a due anni, nel suo più famoso successore, scopriamo che quello che il suo regista voleva raccontare era l'America più autentica, l'America che tutti avevano sotto gli occhi ma che i privilegiati insistevano nel non vedere, quell'America in cui i personaggi di Hopper e Nicholson erano solo una delle possibili declinazioni del concetto di "spacciatore". Quella libertà di pensiero, che nell'intervista degli anni Settanta gli faceva dire di voler tornare nella natura, per vedere se avrebbe saputo ancora godere di un tramonto senza una ragazza di fianco a cui spiegare quanto fosse romantico, questa volontà di andare alla radice delle cose è stata anche la maledizione di Hopper, ciò che lo ha fatto precipitare nella dipendenza: un periodo su cui la Warner soprassiede con garbo, concentrandosi invece sul suo grande ritorno sulle scene, nel ruolo del disturbato Frank Booth per il Velluto blu di David Lynch, e di regista, nello spietato, sfrontatamente reale Colors - colori di guerra.

La Warner ha efficacemente composto un ritratto emblematico del suo soggetto: dando voce alla sua visione, com'era quarant'anni fa e com'era al momento della sua maturazione come artista, la regista palesa tutta la verità che sta dietro a ciò che per Hopper è il percorso dell'attore, ovvero un continuo lavorare su se stessi, un continuo sgrezzare il blocco di marmo da cui si nasce, per dar vita a un'opera compiuta e coerente. In lui questa tendenza a ripensarsi, a tentare la strada dell'onestà sempre e comunque (ad esempio disconoscendo il percorso tipico di una pellicola, destinata a passare, dall'idea alla realizzazione finale, attraverso mille mani e mille teste, colpevoli di distorcerne il significato originale) è evidente, ed è interessante come la regista sia riuscita a rendere questo rovello, aprendo e chiudendo il film con una splendida interpretazione, da parte di un Hopper ancora giovane ma già tormentato e complesso, della poesia If: e possiamo dire che, se per Kipling incontrare la sconfitta e il successo, e trattare questi due impostori nello stesso modo, significava essere uomini, Hopper uomo lo era senz'altro.

Movieplayer.it

3.0/5