Recensione L'ignoto spazio profondo (2005)

Pochi film sanno ipnotizzarci e portarci a riflettere sul nostro stare nel mondo, su quello che è e quello che potrebbe essere; L'ignoto spazio profondo è uno di essi.

Requiem spaziale

Gli occhi malinconici dell'alieno guardano in macchina nervosamente, mentre la nostalgia gli scuce la bocca che si apre in un canto dolente. Tutt'intorno le macerie di un sogno, l'occasione andata in frantumi di costruire una casa sulla Terra, una Washington per profughi extraterrestri provenienti dal Wild Blue Yonder, paradiso nel sistema di Andromeda dal cielo ghiacciato e dall'atmosfera di elio liquido che sarà, in un viaggio inverso tra scorciatoie galattiche attraversate alla velocità della luce, l'ultima speranza per gli abitanti della Terra di trovare riparo da un pianeta sempre più inabitabile. La minaccia di un virus venuto da lontano, e forse ancor di più la follia autodistruttiva dell'uomo, hanno infatti inscatolato un gruppo di astronauti in una navicella lanciata in missione suicida alla conquista dello Spazio, per trovare, da qualche parte nell'universo, un posto accogliente dove ricominciare tutto da capo.

La nuova follia visionaria di Werner Herzog, presentata fuori concorso all'ultima Mostra del cinema di Venezia, è una breve, affascinante, onirica sinfonia spaziale che restituisce al cinema nuova linfa e riscrive (e confonde) i confini del genere sci-fi, attraverso la sua capacità di muovere immaginazione e ragione grazie ad una stupefacente commistione di immagini riciclate e canti di tenori sardi. Il regista tedesco costruisce un racconto fantascientifico in dieci capitoli, gli da la forma del documentario, ma dichiara subito il suo carattere finzionale, mette insieme materiale d'archivio di proprietà Nasa, interviste a matematici che snocciolano con squisita indifferenza complicate teorie scientifiche, primi piani sui monologhi appassionati di un alieno che ha il volto di Brad Dourif e spettacolari viaggi sottomarini realizzati sotto il pack dell'Antartide.

Pochi film sanno ipnotizzarci e portarci a riflettere sul nostro stare nel mondo, su quello che è e quello che potrebbe essere; ancora meno sono quelli che possono permettersi di portare al cinema la fantascienza con un budget ridicolo e offrire allo spettatore un'esperienza alternativa alla banalità della vita quotidiana che è anche raffinata poesia. L'ignoto spazio profondo è uno di questi, un poema visivo ricco di idee e di suggestioni, partorito dalla mente geniale di un regista da riscoprire, un'opera strana che si situa su quella linea critica che separa il sogno dall'incubo, in quel purgatorio a metà strada tra un mondo possibile e un mondo invivibile. Nell'estasi di un racconto per suoni ed immagini inzuppate in un blu mozzafiato si celebra l'ultima messa, di una tenerezza infinita, in suffragio del nostro pianeta, unico nell'universo, che l'uomo, stordito dall'ingordigia e dall'ansia di potere, si diverte a graffiare e a distruggere, incapace di ascoltarne il lamento. Forse, però, tra 820 anni la Terra riprenderà il controllo di sé, vomitando nello Spazio quel che resta degli esseri umani, mentre su un mondo tornato preistorico calerà il silenzio. Non saremo lì a testimoniare questo evento finale, che probabilmente non sarà altro che un nuovo principio, ma oggi grazie ad Herzog siamo già in grado di poterlo vedere.