Recensione Venezia 70 - Future Reloaded (2013)

Sarebbe impossibile citare tutti e settanta i cortometraggi a cui abbiamo assistito e d'altronde non tutti sarebbero comunque degni di menzione; c'è chi però ha voluto cogliere l'occasione per dire davvero la sua su un argomento spinoso come quello del futuro del cinema, ed è forse proprio qui che sono emersi gli aspetti più interessanti del film.

Il cinema è morto, evviva il cinema!

La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica giunge alla sua edizione numero 70, un traguardo storico considerato che quello di Venezia è comunque il festival cinematografico più antico del mondo. Ovviamente non poteva esserci occasione migliore per un po' di sana autocelebrazione, cosa che non ci dispiace affatto soprattutto se a trarne vantaggio sono soprattutto gli spettatori: ed è certamente questo il caso, con il direttore Alberto Barbera che ha voluto festeggiare al meglio questo pretigioso anniversario, invitando 70 registi legati al passato (e al presente) della mostra a girare dei mini corti di 1-2 minuti che raccontassero, in piena libertà e senza alcun paletto se non quello della durata, il cinema e soprattutto il futuro della settima arte.
Qualcosa di non troppo differente, a dire il vero, era già stato fatto dal Festival de Cannes nel 2007 in occasione del sessantennale della kermesse francese, con il film A ognuno il suo cinema composto da 34 cortometraggi, leggermente più lunghi (dai 3 ai 4 minuti) e tutti legati dal tema comune della celebrazione della sala cinematografica; in questo caso invece il film che raccoglie questi 70 corti, in rigoroso ordine alfabetico, si intitola Venezia 70 - Future Reloaded ed è stato proiettato gratuitamente per il pubblico in questa prima giornata di festival, suscitando l'interesse della stampa e dei cinefili più curiosi.

Sarebbe impossibile ovviamente citare tutti e settanta i cortometraggi a cui abbiamo assistito e d'altronde, come sempre succede in questi casi, non tutti sarebbero comunque degni di menzione; spesso, anzi, abbiamo avuto l'impressione che alcuni autori non abbiano voluto sforzarsi più di tanto, forse bloccati dalla durata davvero molto limitata o anche dal tema impegnativo; altri hanno invece semplicemente preferito glissare sul discorso del futuro del cinema e semplicemente hanno scelto di raccontare un qualcosa che gli stava a cuore, come nel caso di Kim Ki-Duk e il commovente ritratto della vecchia madre o Bernardo Bertolucci e la sua sedia a rotelle in grande difficoltà per le antiche, e spesso fatiscenti, strade di Roma.

C'è poi chi invece ha voluto cogliere l'occasione per dire davvero la sua su un argomento spinoso come quello del futuro del cinema, ed è forse proprio qui che sono emersi gli aspetti più interessanti del film, se non altro per il diverso approccio adottato dai vari cineasti coinvolti e i punti di vista davvero molto differenti: c'è per esempio Peter Ho-sun Chan che ha sfruttato i sui due minuti per realizzare una sorta di In Memoriam di grandissimmi cineasti scomparsi (da Stanley Kubrick ad Orson Welles, da Federico Fellini a Billy Wilder) e chiudere semplicemente con l'affermazione "Il futuro era nei loro occhi", e così come lui tanti altri per parlare del futuro non hanno fatto altro che guardarsi insietro. C'è poi la sempre polemica Catherine Breillat, anche se questa volta non forse ha tutti i torti, che ci mette la faccia e accusa gli spettatori, giovani in primis, di voler un cinema che possa semplicemente distrarre e non più far riflettere. Ma il colpevole più frequente sembra essere il digitale, in tutte le sue forme e manifestazioni, colpevole di aver ucciso la pellicola, di aver fatto abbandonare il grande schermo a favore di TV e telefonini, di aver reso gli spettatori vuoti e insensibili.

Emerge forte, in questo senso, il contrasto tra pessimisti ed ottimisti, tra coloro che vedono il cinema (inteso come arte ovviamente) morto o comunque moribondo, e chi invece ritiene che non ci sia in realtà nessun pericolo: a guidare questi ultimi potremmo per esempio inserire Fréderic Fontayne e Pablo Trapero, due registi molto diversi ma che, curiosamente, hanno girato due corti stranamente simili sia nel messaggio che nella forma, entrambi accompagnati dalla nota canzone cantata da Doris Day ne L'uomo che sapeva troppo Que sera, sera ed entrambi quindi non troppo interessati, e tantomeno preoccupati, dal futuro perché tanto "il cinema è ovunque", anche nel sorriso di un neonato o nella vacanza di una famigliola felice alle cascate del Niagara. E i figli come futuro del cinema e per il cinema è un altro tema che ritorna spesso in queste settanta opere, è il caso per esempio del corto di Abbas Kiarostami ma sopratutto in quello delizioso e poetico di Shinya Tsukamoto in cui, insieme al figlio, dà libero spazio alla fantasia e realizza un monster movie ambientato in un modo fatto tutto di cartone.

Altre menzioni speciali: Paul Schrader che racconta il suo punto di vista sulla questione tecnologia trasformandosi in un one-man-band letteralmente circondato da microcamere; Ulrich Seidl che sembra quasi tornare sul set africano del suo Paradise: Love per far cantare in coro Hakuna Matata; Atom Egoyan che ci mostra l'importanza dei ricordi contenuti nei video, anche quelli digitali; Franco Maresco e i suoi irriverenti e spassossimi auguri di "in bocca al leone" a Venezia e al presidente Barbera; Hong Sang-soo e il suo minifilm in cui paragona il cinema ad un malato con il 50% di possibilità di sopravvivere. Ed infine il nostro preferito, il geniale The End di Samuel Maoz, in cui il cinema sta letteralmente esalando i suoi ultimi respiri (tra cui "Rosebud", citazione ovviamente al capolavoro Quarto potere), viene soccorso da dottori ed infermieri (ma l'emorragia di pellicola non si riesce a fermare) e infine diventa un pezzo di museo, nemmeno poi troppo interessante. Il cinema è morto? Evviva il cinema!

Movieplayer.it

3.0/5