Recensione Transcendence (2014)

Con Transcendence, l'esordiente Wally Pfister mette in scena un racconto sci-fi visivamente ipertrofico, squilibrato ma ricco di fascino, che riesce a lavorare sottopelle e a fissarsi nella memoria dello spettatore per molto tempo dopo la visione.

L'anima virtuale

Will Caster è un ricercatore di successo, ma il cui lavoro è controverso. Le sue ricerche nel campo dell'intelligenza artificiale, e la sua fiducia nel progetto di creazione di un essere senziente e dotato di autocoscienza, che possa replicare fedelmente l'uomo, lo hanno infatti esposto a critiche, e messo nel mirino di gruppi estremisti che si oppongono alla tecnologia. Proprio uno di questi, durante un convegno, mette in atto un'azione che ferisce gravemente Will, oltre ad uccidere alcuni suoi colleghi e a distruggere parte del suo laboratorio. Il ricercatore viene colpito da una pallottola con del polonio, che lentamente rilascia nel suo corpo radiazioni che nel giro di un mese lo porteranno alla morte. La moglie di Will, Evelyn, e il suo collega e amico Max Waters, non si rassegnano alla fine: i due mettono le mani su un progetto sperimentale dello scienziato, finalizzato a trasferire integralmente la coscienza di un individuo in un calcolatore. Il proposito è ai limiti della follia, ma è anche l'unico modo per far sopravvivere Will: Evelyn e Max caricano su un elaboratore l'intero contenuto della mente dello scienziato, poco prima della morte del suo corpo. La "trascendenza" di Will riesce: ma la sua versione virtuale rivela una brama di potere sconosciuta al suo alter ego umano. L'entità che ha preso il posto dello scienziato acquisisce sempre maggior potenza, duplicando se stesso nella Rete e alimentandosi dell'energia di tutti i centri di calcolo mondiali. Troppo tardi, Evelyn si accorgerà che il "doppio" virtuale di suo marito è una creatura inumana e pericolosa.


Visioni trascendenti
Wally Pfister, regista esordiente di questo Transcendence, è stato direttore della fotografia di quasi tutti i film di Christopher Nolan; e, a livello visivo, l'influenza del regista di Inception (qui produttore esecutivo) è evidente. La complessa costruzione visiva e scenografica di Nolan, la composizione dell'inquadratura ai limiti del formalismo, l'esplorazione della coscienza (e dell'inconscio) e la sua trasposizione in immagini: impegnato per anni a interpretare e dar consistenza alle visioni del collega, Pfister rivela qui di esserne stato decisivamente influenzato, rielaborandone la sostanza in un plot sci-fi con una lunga tradizione alle spalle. La creazione di esseri senzienti, e i problemi etici ad essa legati, è un tema vecchio quanto la fantascienza stessa, che ne attraversa tutta la storia (letteraria e cinematografica) risultandone uno dei principali topoi: ma il regista, qui, sposta la sua ricerca sul tema dell'individualità, sulle basi di ciò che viene chiamato coscienza, sull'esistenza o meno di un'anima e sulla possibilità di catturarne e perpetrarne l'essenza. Temi che letteralmente "trascendono" il genere, resi in un cotè visivo elaborato e affascinante, che non conosce la misura ma trae proprio da questa bulimia visiva il suo fascino: fin dalle prime inquadrature, è evidente la scelta di puntare sul contrasto tra la messa in immagini del mondo naturale e l'invisibile, pervasiva presenza della tecnologia, tra un'idea new age di utopico ritorno alla natura e la realtà di un universo ormai misurato nei minimi dettagli e replicabile elettronicamente. Alcune soluzioni, che potrebbero apparire gratuito sfoggio di gusto estetizzante (come il dettaglio sulla goccia d'acqua) acquistano senso narrativo col procedere del film.

Suggestioni multiple, in equilibrio precario

Il plot di Transcendence punta comunque su un gioco di rimandi e suggestioni che non si esauriscono nella fantascienza cyberpunk, pure occhieggiata in modo ovviamente esplicito, ma si ramificano al contrario in direzioni diverse: c'è il tema del "doppio" e del controllo silenzioso de L'invasione degli ultracorpi (specie per come fu declinato nel suo remake del 1978, Terrore dallo spazio profondo); c'è il terrore della tecnologia e della sua presenza immateriale e pervasiva che era già presente in Kairo di Kiyoshi Kurosawa; c'è l'incubo bio-meccanico di un'entità che può rigenerare (e rigenerarsi) come distruggere, che emanava da Akira di Katsuhiro Otomo; c'è l'afflato ecologista, scoperto ed esplicito fino a lambire il rischio di scivolare nel kitsch, del M. Night Shyamalan di E venne il giorno. Influenze messe insieme in una sceneggiatura (opera di un altro esordiente, Jack Paglen) che non ha nell'equilibrio il suo punto di forza: superata la prima parte, in cui viene messa in scena la "trascendenza" del protagonista, la narrazione si fa sfilacciata, poco organica, fa un improvviso salto temporale, narrativamente poco giustificabile, per avviarsi poi verso soluzioni contraddittorie e poco comprensibili. Se la mancanza di misura, in qualche modo connaturata all'estro visivo del regista, paga in termini di suggestione puramente estetica, ciò viene scontato, dal lato opposto, dal punto di vista della compattezza e della credibilità del racconto. Lo script mette un notevole quantitativo di carne al fuoco, ma si rivela poi incapace di gestirla compiutamente; specie nella seconda parte, in cui l'immateriale dominio del protagonista genera uno scontro che ha per teatro una cittadina posta nel deserto, avamposto di una colonizzazione che si sviluppa sul doppio binario concreto e virtuale.

Il demone (virtuale) sotto la pelle

Nonostante gli squilibri, tuttavia, e l'obiettiva difficoltà ad attuare, in alcuni passaggi, quella che in gergo si chiama sospensione dell'incredulità, Transcendence trasmette un'inquietudine che riesce a lavorare sottopelle (ed è quasi un paradosso, questo, per un film che ha nella strabordanza visiva una delle sue caratteristiche principali); restando nella mente dello spettatore, insieme ad alcune, singole sequenze, per molto tempo dopo la visione. Merito dell'universalità dei temi trattati, come si diceva da sempre patrimonio (non solo cinematografico) del genere; ma anche del peculiare modo di raccontarli, che, se da una parte sacrifica molto sul versante della chiarezza e dell'equilibrio narrativo, dall'altra mantiene quell'ambiguità, quella produttiva assenza di uno sbocco univoco (e univocamente leggibile) alla vicenda, che fa in modo che questa continui incessantemente a lavorare, dopo la visione, nella memoria. Risultato raggiunto anche grazie alla prova di un Johnny Depp che, smessi i panni di eroi burtoniani calcanti universi sempre più manierati, e di pirati ormai ridotti a stanche repliche di se stessi, segue e accompagna ottimamente la natura duale del suo personaggio: concretezza e virtualità, "traccia" della presenza umana pre-trascendenza e inafferrabile scarto che ne ha trasformato, in modo indefinibile quanto decisivo, l'essenza. La sua interessante lettura del personaggio, in un cast complessivamente funzionale ed efficace (da segnalare anche la problematica Evelyn di Rebecca Hall, nonché un Morgan Freeman sempre carismatico) rappresenta un valore aggiunto per un'opera imperfetta, quanto capace di fissarsi, con tutti i suoi limiti, nella memoria e nelle inquietudini finanche dello spettatore più smaliziato.

Movieplayer.it

3.0/5