We Can Be Heroes
Il 28 giugno 2005, un team delle US Navy Seal, le forze speciali della Marina degli Stati Uniti, si inoltra fra le montagne dell'Afghanistan per portare a compimento l'Operazione Red Wings: eliminare Ahmad Shah, un ricercatissimo e pericoloso leader talebano. Ad effettuare una prima ricognizione, nel tentativo di appurare la fattibilità della missione e di individuare l'obiettivo da abbattere, sono quattro marine di età compresa fra i 25 e i 29 anni: il tenente Michael P. Murphy (Taylor Kitsch), Marcus Luttrell (Mark Wahlberg), Danny Dietz (Emile Hirsch) e Matthew Axelson (Ben Foster). Mentre sono intenti a perlustrare il territorio, i quattro marine incrociano la loro strada con quella di tre pastori afghani, fra cui un ragazzo non ancora adolescente, e si trovano di fronte a un difficile dilemma etico: ucciderli, evitando così di compromettere l'operazione, o lasciarli liberi, con il rischio che possano avvertire i talebani. Poco dopo questo incontro, all'improvviso si scatena l'inferno: un inferno dal quale soltanto uno, fra i quattro soldati, avrà la fortuna di uscire vivo...
Le ferite ancora aperte dell'America
Riflettere sulle ferite ancora aperte di una nazione costantemente impegnata in conflitti lontani, in territori che sembrano polveriere sempre in procinto di esplodere, non è impresa facile, per una pluralità di motivi. Perché non si è ancora verificato un sufficiente distacco emotivo fra il pubblico e gli avvenimenti oggetto della narrazione; perché il confine tra opera cinematografica e commemorazione celebrativa può risultare labile ed ambiguo; soprattutto, perché da un racconto per suoni, immagini e parole non necessariamente può scaturire un'autentica riflessione sulle sanguinose cronache di guerra dei nostri tempi, ma talvolta ci si trova di fronte - più banalmente - ad una rappresentazione didascalica pronta a sconfinare nella retorica. E così, se l'intelligenza e lo spirito critico di una regista come Kathryn Bigelow possono regalarci un war-movie del calibro di The Hurt Locker, o addirittura uno spiazzante capolavoro quale Zero Dark Thirty (perfetto e insuperabile punto di arrivo per quanto riguarda il cinema sulla "guerra al terrorismo"), in altri casi i risultati finiscono per rivelarsi assai meno originali e convincenti. È quanto accade, purtroppo, con Lone Survivor, film basato appunto sulla tragica Operazione Red Wings del 2005, già raccontata dal giornalista Patrick Robinson in un libro-reportage dal titolo Lone Survivor - The Eyewitness Account of Operation Redwing and the Lost Heroes of Seal Team 10, scritto a quattro mani con l'unico sopravvissuto della missione, Marcus Luttrell.
Le cronache di guerra di Peter Berg
Diario di guerra o cinema di propaganda?
Infine, è nel terzo atto - il più riuscito ma, al tempo stesso, quello che maggiormente fa rimpiangere l'occasione sprecata - che si rivela il vero nucleo drammatico di Lone Survivor, con l'inaspettato intervento dei pastori afghani in soccorso del soldato Luttrell, unico superstite del quartetto e braccato dai talebani. Peccato però che non basti la sottile patina di umanismo dell'epilogo a nascondere l'irritante sciovinismo alla radice del film; uno sciovinismo rimarcato peraltro, in maniera smaccata ed insopportabilmente didattica, dal motto finale pronunciato dalla voce over del personaggio di Wahlberg, parafrasabile (per citare Francesco De Gregori) dicendo 'che la guerra è bella anche se fa male'. Scusateci, ma noi continuiamo a preferire di gran lunga il silenzio e le lacrime dell'agente Maya.
Movieplayer.it
2.0/5