Recensione La vida después (2013)

David Pablos dosa i dialoghi riducendoli all'osso rendendo significanti i silenzi, lasciando che a comunicare siano sguardi, gesti, cenni. Il deserto messicano, fotografato da luci calde e tenui, si trasforma così in un luogo dell'anima.

Fratelli

Un romanzo di formazione ambientato nel Messico assolato. Due fratelli uniti da sentimenti contrastanti nei confronti l'uno dell'altro e da un rapporto ambiguo con la madre sono costretti a mettersi in viaggio, loro malgrado, per ritrovare la donna, sparita all'improvviso dopo aver lasciato un biglietto sul tavolo della colazione con su scritto "Sono dovuta andare via". La vida después, opera prima di David Pablos, non è la sola pellicola di questa edizione della Mostra di Venezia ad affrontare il tema della famiglia disfunzionale. Qui troiamo l'ennesimo nucleo lacerato, tormentato da un malessere serpeggiante e da segreti inespressi, raccontato da una pellicola intimista e delicata che si inserisce di diritto in quella nuova ondata di cinema messicano indipendente a cui tanto hanno dato gli attori/produttori Gael Garcia Bernal e Diego Luna. La vita despues si divide in due parti separate da un'ellissi temporale: nella prima vengono mostrati frammenti dell'infanzia di Rodrigo e Samuel, poi li ritroviamo improvvisamente adolescenti.

Per indagare le radici profonde del contrastro fraterno, David Pablos sente la necessità di risalire alla più tenera età fotografando i due protagonisti di fronte a momenti traumatici come la morte del nonno e il trasloco effettuato insieme alla madre single, affettuosa, ma psicologicamente instabile. Come già accaduto molto altre volte, anche in quest'opera il topos del viaggio diviene la chiave privilegiata per raccontare il superamento del limen, il passaggio traumatico dall'infanzia all'età adulta, tema da sempre privilegiato da letteratura e cinema. Da indagine familiare, il film si trasforma improvvisamente in road movie. La fuga della madre rappresenta l'elemento di rottura che costringe i due fratelli a guardare l'altro con occhi diversi, a scoprirsi vicini nella loro diversità e a venire a patti col rancore sordo che covano da anni. Il tutto avviene nell'arida cornice del deserto di Sonora, luogo iniziatico per eccellenza, dove i ruoli si capovolgono e ogni certezza viene messa in discussione.
A giudicare dalle scelte narrative, l'esordio di David Pablos non brilla per originalità. Il regista opera per via derivativa rifugiandosi in temi già declinati centinaia di volte in modo più profondo e originale. A risollevare la pellicola è, piuttosto, la forma. Le scelte stilistiche rivelano una sensibilità fuori dal comune, una ricerca dell'eleganza visiva e un'attenzione particolare nei confronti dei personaggi. La macchina da presa segue con discrezione Rodrigo, Samuel e, nella prima parte del film, anche la loro fragile genitrice accarezzandoli, mostrandone frammenti di tenerezza, celando i loro attimi di intimità. Lo sguardo di David Pablos rivela un insolito pudore, un profondo rispetto nei confronti dei personaggi e delle loro scelte. Raramente il suo è un dolore urlato. Il regista dosa i dialoghi riducendoli all'osso rendendo significanti i silenzi, lasciando che a comunicare siano sguardi, gesti, cenni. Il deserto messicano, fotografato da luci calde e tenui, si trasforma così in un luogo dell'anima dove la ricerca della madre, della casa e di un'ipotetica stabilità rivela la lezione più importante: il momento in cui le necessità dell'altro divengono le nostre priorità è quello in cui si diventa uomini.

Movieplayer.it

3.0/5