Recensione Jane Eyre (2011)

Mia Wasikowska è semplicemente straordinaria. Sul suo volto pallido si materializza con estrema naturalezza un'infinita gamma di espressioni che corrispondono ai tormenti, alle gioie e alla frustrazione di Jane Eyre.

Una moderna eroina romantica

Di adattamenti di Jane Eyre, cupo romanzo gotico della più longeva tra le sorelle Bronte, ne esistono un bel po'. Dalla versione più enfatica e classicheggiante, che vedeva Mr. Rochester interpretato da un vibrante Orson Welles, a quella elegante e appassionata di Franco Zeffirelli fino alla più recente, la miniserie della BBC che ha conquistato una schiera di fans grazie al talento e all'avvenenza dei due interpreti, non ci siamo fatti mancare niente. Era necessario un ulteriore adattamento a distanza di soli cinque anni dall'ultima produzione televisiva e a quindici da quella cinematografica? Evidentemente si. Ogni nuova generazione sembra volersi appropriare dei classici rileggendoli attraverso uno sguardo contemporaneo, eliminando inconguenze e anacronismi e modernizzandoli senza, però, tradirne lo spirito originale. E' questa l'impresa in cui si è imbarcato il trentacinquenne californiano Cary Fukunaga realizzando una pellicola notevole sotto molti punti di vista.


Nell'incipt del suo Jane Eyre il regista applica la regola secondo cui adattare significa anche tradire e infrange la tradizione del racconto lineare presente nel romanzo della Bronte, e applicata con rigore in tutte le precedenti versioni, rimescolando le carte con l'uso di flashback. Il film si apre ex abrupto con la fuga di Jane da Thornfield Hall dopo il mancato matrimonio per poi balzare indietro nel tempo mostrando frammenti della sua infanzia tormentata in affido alla feroce zia e del trasferimento nella rigida scuola religiosa in cui la piccola Jane viene spedita. Coraggioso il tentativo di rinnovamento che, però, viene applicato solo fino a un certo punto della storia per poi interrompersi all'improvviso. Anche Fukunaga dimostra di essere posseduto dal timore reverenziale nei confronti dei modelli, così, dopo un inizio sfolgorante in cui presente e passato si alternano più volte con sorprendente rapidità, il regista abbandona lo schema per rientrare nei ranghi e riabbracciare l'ordine cronologico. La sceneggiatura di Moira Buffini "osa" là dove può e adatta i dialoghi in modo intelligente asciugando i lunghi scambi tra i personaggi ed eliminando gli eccessi moralistici, innaturali a un orecchio moderno, senza intaccare le battute più celebri e affascinanti. In alcuni punti la sceneggiatrice aggiunge addirittura alcuni elementi estranei al romanzo, tocchi che denunciano chiaramente una formazione post-freudiana, volti ad arricchire ulteriormente la psiche dei personaggi, ma è soprattutto nell'uso disinvolto dell'ambiente che emerge lo stacco principale rispetto al passato.

Qui Cary Fukunaga mette in atto un procedimento che verrà portato all'eccesso da Andrea Arnold nel suo Wuthering Heights. La sterminata brughiera del Derbyshire, in cui è immersa la splendida magione di Haddon Hall (Thornfield Hall nel film), assume connotazioni psicologiche a tratti sconcertanti facendosi personaggio tra i personaggi. La passiva e idilliaca cornice naturale di tanti quadri cinematografici ottocenteschi a un tratto non è più così passiva. La fuga di Jane, il primo incontro con Rochester, il dialogo serrato con St. John, non solo si consumano di fronte a una natura fosca, potente e desolata, ma quest'ultima viene fotografata da uno sguardo inquieto che, con una sensibilità tutta moderna, le affida un ruolo di primo piano fornendole uno spessore emotivo in cui risuona e si amplifica l'eco del dolore e dei tormenti della protagonista umana, l'appassionata Jane. L'interprete scelta da Fukunaga, l'australiana Mia Wasikowska, è semplicemente straordinaria. Sul suo volto pallido si materializza con estrema naturalezza un'infinita gamma di espressioni che corrispondono ai tormenti, alle gioie e alla frustrazione di Jane Eyre. Il suo atteggiamento severo e trattenuto nasconde un'emotività fervente e incarna con facilità il messaggio sociopolitico contenuto nel romanzo originario, il forte senso d'indipendenza di Jane, il suo spirito indomito, la sua solida morale dovuta non al bigottismo dell'epoca, ma a un profondo rispetto per la sua persona, a una concezione dell'essere umano talmente moderna da spingerla a rivolgersi a Edward Rochester in una delle scene chave del film "...as if we'd passed through the grave and stood at God's feet, equal, as we are".
Di fronte all'incredibile perfomance della Wasikovska, anche il talentuoso Michael Fassbender risulta un po' appannato. Nonostante sia molto più bello dell'equivalente letterario, il suo Rochester è intenso, scontroso, feroce e cupamente ironico, ma nei momenti chiave perde il confronto con il suo ruvido e meno perfetto, ma più appassionato predecessore William Hurt. Questa sensazione di distacco la ritroviamo nel film di Fukunaga giudicato nel suo complesso. La pellicola girata con estrema cura presenta scelte di regia quasi sempre azzeccate, trucco, costumi, scenografie e recitazione dei personaggi secondari (da un'impeccabile Judi Dench a un efficace Jamie Bell nel ruolo un po' antipatico del moralista St. John) sono eccellenti e i toni dark di cui a tratti il film si tinge forniscono quel tocco in più che ci permette di comprendere fino in fondo il solitario microcosmo delle campagne inglesi ottocentesche. Purtroppo la stessa asciuttezza drammaturgica che caratterizza l'opera, favorendone la fruibilità e donando ritmo alla narrazione, si rivela in un'arma a doppio taglio in momenti topici come l'apparizione di Bertha e il ricongiungimento finale che avrebbero richiesto un passo meno sbrigativo. La mancanza di pathos viene, però, ricompensata dal coraggio e dall'eleganza di una pellicola che ha il merito di cercare una nuova via per ridar nuova vita a una storia immortale e Fukunaga si conferma un autore da tenere d'occhio per il futuro.

Movieplayer.it

3.0/5