Recensione Et in terra pax (2010)

Esordio coraggioso e scabro, 'Et in terra pax' getta uno sguardo veristico e disincantato sulla marginalità dell'estrema periferia romana, che diventa quasi un luogo di desolazione esistenziale e di ineluttabile condanna.

Ragazzi di morte

Le ultime stagioni del cinema italiano sembrano dare buoni frutti, almeno per ciò che concerne la capacità di attingere al reale e di plasmare opere cinematografiche che riescano a fondere la lucidità dello sguardo documentario con la facoltà di racconto propria del genere. Se nell'ambito mainstream Gomorra di Matteo Garrone
è stato all'unanimità riconosciuto come il portabandiera di un nuovo tipo di sensibilità - che riesce a fondere con sguardo disincantato e antiretorico la denuncia sociale e le coordinate del cinema action - sono molti i progetti low budget che partono dal basso (spesso da giovani autori) e provano a catturare dentro lo schermo la loro realtà. Ultimamente non sono pochi i film che attingono all'ambiente di degrado e di criminalità delle periferie romane, sfruttando l'universo borgataro (ormai dotato di un proprio immaginario quasi mitico) come cornice per opere d'action, almeno da Romanzo Criminale in poi. L'esperimento dei giovani Matteo Botrugno e Daniele Coluccini si distingue però da tutti gli altri per il coraggio delle scelte, per l'urgenza delle intenzioni e per lo sguardo compassionevole sulla realtà da loro sondata. Il loro esordio al lungometraggio Et in terra pax sembra quasi voler recuperare le suggestioni pasoliniane nel raccontare i giovani alla deriva delle periferie, un'umanità ai margini, sbandata e alienata. I teppistelli e i delinquenti ritratti nel film, più che colpevoli, sembrano vittime predestinate, condannati a priori dai luoghi di degrado in cui sono costretti a vivere.


Non sono però ormai più i Ragazzi di vita di Pasolini: la loro innocenza, la loro istintiva vitalità è ormai persa per sempre, stritolata dal vuoto contemporaneo che li circonda. Sono piuttosto "ragazzi di morte", spettri svuotati di qualunque ideale, slancio, emozione e motivazione. Come Faustino, Massimo e Federico, tre sbandati che perdono nel nulla i loro pomeriggi, tra un tiro di cocaina e una partita di calcetto, e per i quali anche un gesto come lo stupro sembra privo di conseguenze. Come Marco, che si è fatto cinque anni di galera e adesso vorrebbe rimanere pulito, ma è ugualmente risucchiato da un vortice ineluttabile di violenza e criminalità che, in realtà, non lo ha mai abbandonato. Come Sonia, forse l'unico personaggio che tenta di resistere con ogni sforzo alla deriva della disillusione e dell'inedia, ma la quale finirà lo stesso per divenire vittima della brutalità e della deturpazione che pare connaturata in questi luoghi. A dominare sui personaggi, quasi come una condanna, sono i luoghi che li circondano. Paesaggi ricolmi di una desolazione esistenziale: gli alieni palazzi del quartiere Nuovo Corviale, un angoscioso cimitero di macchine e di motorini, un inquietante cinodromo abbandonato, l'isolata panchina in cui passa tutta la giornata Marco per "lavoro". Gli ambienti sembrano quasi avere il sopravvento sui caratteri e imporre loro determinate scelte e comportamenti, che divengono come ineluttabili. Non ci può essere pace per questi ragazzi.