Kiyoshi Kurosawa è autore che conosciamo da tempo, da quando l'avevamo scoperto con il suo Kairo ed altri film di genere da lui diretti oltre dieci anni fa. Da subito il suo tocco più legato agli orrori del quotidiano ci era sembrato emergere nel mare di J-Horror alimentato dal successo di Ringu e non ci stupisce che negli ultimi anni la sua evoluzione sia andata in direzioni più complesse. Ce l'aveva mostrato già nel 2008 a Cannes con Tokyo Sonata, lo conferma ora al suo ritorno nella sezione Un certain regard con un film dall'impianto articolato nella sua semplicità come Journey to the Shore. Un film che è difficile da definire, una ghost story fuori dal comune, in cui i fantasmi non spaventano né tormentano i vivi, ma diventano personaggi del racconto.
A volte ritornano
Quelle di Journey to the Shore, infatti, non sono presenze spettrale nel senso in cui siamo abituati a considerarle. Siamo lontani dagli horror occidentali, non ci avviciniamo nemmeno alla tradizione di quelli nipponici e orientali in generale che sono approdati da noi in cui il soprannaturale è minaccioso e pericoloso; nell'ultimo lavoro di Kurosawa, piuttosto, siamo al cospetto di figure che restano legate al nostro mondo per occuparsi di qualcosa di incompiuto. E' il caso del marito di Mizuki, Yosuke, annegato tre anni prima e di ritorno al cospetto della moglie in una sequenza sorprendente quanto suggestiva: Yosuke torna una notte a casa delle moglie, improvvisamente così come era sparito. Eppure la moglie non ne è spaventata, a dirla tutta nemmeno sorpresa, ed in effetti la sua reazione è ordinaria e per questo stupisce: irritata, gli fa notare che ha dimenticato di togliere le scarpe prima di entrare.
Viaggio tra i ricordi
Da quel folgorante incipit, Kiyoshi Kurosawa ci conduce in un viaggio, letterale e metaforico, accanto ai due coniugi tra i ricordi e le tappe della vita di lui. Un percorso, quello di Yosuke e Mizuki, che ci porta a contatto con un campionario di tipi umani, di sentimenti e rimorsi che giacciono sotto la superficie delle loro esistenze, scoprendo poco a poco anche dettagli e livelli del matrimonio dei due coniugi, ora ricongiunti dopo essere stati separati dalla morte. Ed è magistrale la messa in scena che ne fa Kurosawa, quel senso di etereo limbo che permea le immagini rarefatte, pacate eppure robuste. E' una costruzione, delle singole scene e dell'intero film, che affascina e colpisce, ma con i suoi tempi dilatati, la sua asettica perfezione, pone anche noi in un limbo che non ci permette di avvicinarci ai personaggi e sentirne emozioni, paure e rimorsi.
Estetica nipponica
Journey to the Shore è intriso di Giappone, di concetti, idee e modi di essere che aleggiano sorprendentemente in un paese che vive una folgorante spinta tecnologica, in modo non distante da altre pellicole presentate a Cannes 2015. L'autore stesso parla di mitoru, un verbo impossibile da tradurre nelle nostre lingue e soprattutto culture, perché si riferisce a qualcosa che poco ci appartiene: l'accompagnare una persona che muore, vegliare si di lei finché l'inevitabile sopraggiunge. Un concetto che non ci appartiene perché è diversa la visione della morte che le culture Shinto e buddiste portano con sé, che si manifesta nella loro accettazione della caducità della vita, e fascinazione per essa, nell'idea di un mondo panteista in cui tante divinità aleggiano, compresi i nostri stessi antenati. Ugualmente, la stessa destinazione finale di Yosuke sembra estrapolata dagli ideali buddisti e completa una visione puramente nipponica del mondo che accompagna lo sviluppo di Yourney to the Shore così come Mizuki fa con Yosuke e Kurosawa stesso con noi spettatori.
Movieplayer.it
3.5/5