Recensione Casa e bottega (2012)

Renato Pozzetto torna protagonista con una miniserie su Rai Uno, Casa e bottega, per raccontare la crisi economica nei toni della commedia. Il tentativo di ridare al pubblico in pizzico di speranza nell'umanità passa attraverso il suo imprenditore Mario Trezzi...

Casa e bottega: Renato Pozzetto racconta la crisi con un sorriso

Fa male perdere i frutti di decenni di duro lavoro, ma ferisce di più l'idea di ammettere il fallimento con i propri cari, quelle persone che un capofamiglia sa di dover proteggere ad ogni costo. Lo sa bene Mario Trezzi (Renato Pozzetto), l'imprenditore tessile protagonista di Casa e bottega, miniserie in due puntate in onda su Rai Uno in prima serata martedì 17 e mercoledì 18 dicembre.
È un uomo dai valori antichi, un titolare vecchio stile, di quelli che si sfilano le banconote dal portafoglio per aiutare un operaio in difficoltà in maniera anonima, uno di quei signori d'altri tempi che ha pudore e dignità nel chiedere ma è il primo a spendersi senza ritegno per gli altri.
Finora ha vissuto in una routine rassicurante, che alternava i turni in fabbrica con le serate in famiglia, grazie al matrimonio solidissimo con la moglie Teresa (Anna Galiena), un sodalizio lungo 5 anni di fidanzamento e 30 di nozze. È circondato dall'affetto delle due figlie ormai grandi e dal surreale cognato Erminio (Nino Frassica), l'unico autista del pianeta senza patente, che quindi Mario si ritrova a portare in giro, suo malgrado, per le strade della cittadina sul Lago Maggiore dove ha creato il suo microcosmo.

La sua impresa vanta il clima intimo e complice degli ambienti lavorativi piccoli, dove le strette di mano e la parola data hanno ancora un peso. In questo idillico panorama piccolo borghese irrompe, senza preavviso né mezze misure, la crisi economica. I fornitori chiedono di essere pagati e i creditori si danno alla macchia. Gli altri dirigenti scelgono di spostare le fabbriche all'estero o di ridurre il personale, ma non Mario. "Se affonderà la nave - promette - sarò l'ultimo ad andarmene". Sull'insegna della sua impresa di famiglia c'è impresso l'anno glorioso di fondazione, il 1846, e il titolare non ha intenzione di chiudere i battenti tanto facilmente.
Inizia così una spirale discendente costellata di truffatori di ogni genere, aggravata da minacce e rappresaglie, perché Mario si ritrova stretto nella morsa degli strozzini, senza possibilità di uscire dalla bancarotta se non ricorrendo a misure estreme.
Si fida, ingenuamente, di personaggi meschini che lo raggirano con doppi fini e lo tengono in pugno, nel privato come sul lavoro. Dopo 4 decenni di gloriosa e immacolata attività, Mario ammette il disastro: inizialmente nasconde la verità ai suoi cari, moltiplicando danni e conseguenze delle sue azioni sconsiderate, anche se in totale buona fede, e solo dopo è costretto ad ammettere la dura verità.
La primissima reazione davanti ad una storia del genere è di profonda empatia e amara comprensione perché, mutuata dal vissuto quotidiano di milioni di persone, vuole essere non solo uno specchio della realtà ma anche un barlume di speranza e di innocenza in una situazione che di rosee ha forse solo le illusioni.
Con qualche nota umoristica e svariate licenze, il racconto procede con immediatezza e semplicità: non occorre sospensione dell'incredulità per immedesimarsi nel dramma di quest'onesto lavoratore messo in ginocchio dal sistema. L'intento, che sembra innocente almeno quanto l'indole del protagonista, non è quello di offrire soluzioni né analisi approfondite, ma accompagnare nel viaggio questo personaggio che tanto somiglia all'uomo comune. E qui sta il suo punto di forza: parlare allo telespettatore con il linguaggio del quotidiano, dandogli una pacca sulla spalla e raccontandogli quella che a troppi ancora sembra la favoletta di Natale (consegnata dal piccolo schermo in anticipo).
Passano, quindi, in secondo piano, i provincialismi di alcune scelte e le semplificazioni nel copione, a partire dalla stereotipizzazione eccessiva dei vari personaggi. Quello che resta alla fine della visione non sono gli evidenti limiti della miniserie, ma la sensazione di assistere allo spettacolo della propria esistenza.