Recensione Burning Bush (2013)

Avvalendosi di un gruppo di attori, tutti molto credibili, la Holland sembra voler utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione, a partire da una fotografia molto bella, per arrivare al cuore del telespettatore e ci riesce quasi sempre.

Il coraggio della verità

Aveva solo vent'anni Jan Palach quando decise di darsi fuoco a Piazza San Venceslao per protestare contro l'invasione sovietica, un ciclone che spazzò via gli anni della Primavera di Praga, quando sotto la guida del riformista slovacco Alexander Dubcek si stava lavorando per realizzare un'idea nuova di socialismo. Quel gesto, ispirato allo studente da alcuni monaci buddisti del Vietnam, divenne la miccia che fece esplodere un incontenibile sdegno popolare, spingendo la popolazione locale a resistere contro le ingerenze sempre più massicce del regime comunista; quella che prima veniva considerata una tragica fatalità, a cui poco ci si poteva opporre, divenne dopo la morte di Palach il muro da abbattere. A questa storia così carica di significati la regista polacca Agnieszka Holland ha dedicato Burning Bush, una miniserie in tre puntate, prodotta da HBO Europe, che Rai Tre trasmetterà in tre prime serate il prossimo anno. L'anteprima dell'episodio introduttivo, presentato nella settima edizione del Roma Fiction Festival, ci ha permesso di assistere ad un'opera significativa, formalmente ineccepibile e in alcuni momenti molto emozionante.

L'incipit è fulminante, con dei titoli di testa che mostrano in una serie di filmati d'epoca alcuni ragazzi che ballano il twist; immagini di danze sfrenate e molto moderne per l'epoca che acuiscono per contrasto quanto invece scopriamo subito dopo. La figura di Palach ci appare indistinta, ma i suoi gesti così precisi (togliersi il cappotto, versarsi addosso della benzina e darsi fuoco) parlano da soli. Da questo momento ha inizio una catastrofe di eventi che non si riesce più a controllare. La notizia dell'incidente corre di bocca in bocca e arriva nel quartier generale del movimento studentesco, dove subito si comprende l'importanza epocale della dimostrazione; una giovane legale, Dagmar Buresova, sembra colpita più degli altri, forse per il filo diretto con l'ospedale tenuto grazie al marito medico. Se per i leader del movimento si parla di atto politico, per le forze dell'ordine si tratta di un fenomeno da non sottovalutare.

La macchina organizzativa del governo si mette dunque subito in moto; mentre il giovane lotta tra la vita e la morte in ospedale, agenti e sottoposti cercano di far luce su nuove simili proteste, annunciate dallo stesso Palach in una lettera in cui si fa riferimento ad un'organizzazione (in seguito altri studenti, tra cui un amico di Palach, Jan Zajìc, si danno fuoco, nell'indifferenza generale dei media). I poliziotti non vanno troppo per il sottile con le indagini, ma la protezione di cui gode il ragazzo è assoluta. Lo shock subito da madre e fratello, una volta appresa la notizia, spinge naturalmente familiari ed amici a supportarli. Quando dopo tre giorni di dolorosa agonia Jan Palach muore, è un'intera nazione ad essere in lacrime per il sacrificio di uno dei suoi figli. In migliaia partecipano al funerale. L'effigie di Palach campeggia su tutti i muri, mentre un calco in gesso del suo volto, reso possibile grazie alla collaborazione del custode dell'obitorio, prende il posto del busto di Lenin. In pochi giorni i cechi vengono destati dal torpore, dall'acquiescenza in cui erano piombati, e sono pronti ad intraprendere un nuovo corso. Troppo da sopportare per i membri del Governo filo sovietico. A quattro settimane dalla sua morte, un membro dell'Esecutivo rilascia un'intervista diffamatoria nei confronti di Palach, accusandolo di aver voluto mettere in scena un finto suicidio, rimanendo però ferito sul serio. La madre e il fratello della vittima contattano così l'avvocato Buresova per intentare una causa contro l'uomo. Cioè contro il sistema.

Il lavoro di Agnieszka Holland, selezionato nella sezione Special Presentation dell'ultimo Toronto International Film Festival, e candidato della Repubblica Ceca per l'assegnazione dell'Oscar alla miglior opera straniera, parte dall'evento storico per analizzare in maniera encomiabile il grande risveglio di una nazione, reso possibile dall'esempio di un ragazzo come tanti. "Dobbiamo credere che sia stato significativo", dice la madre del patriota ceco Jan Palach all'avvocatessa per spiegare il motivo che l'ha spinta a rivolgersi a lei. E il profondo significato di quel gesto sembra essere quindi il cuore stesso della miniserie. Avvalendosi di un gruppo di attori, tutti molto credibili, la Holland sembra voler utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione, a partire da una fotografia molto bella, per arrivare al cuore del telespettatore e ci riesce quasi sempre. A mancare (ma la nostra è una visione parziale) è l'analisi delle motivazioni che hanno mosso Palach al suo gesto, cosa lo abbia obbligato a togliersi la vita, quando avrebbe potuto scegliere altro per far sentire forte la sua voce. Scelta che la Holland, invece, non ha voluto compiere, preferendo focalizzarsi sul bellissimo ruolo di Dagmar (Tatiana Pauhofova), una donna dalla grande identità (moglie innamorata, madre affettuosa, legale implacabile), divenuta poi Ministro della Giustizia nella Cecoslovacchia libera. Avere la possibilità di confrontarsi con un personaggio del genere è un merito che non possiamo non dare a Burning Bush.

Movieplayer.it

3.0/5