Recensione Grace Is Gone (2007)

'Grace Is Gone' non è altri che un saggio sui diversi stati psicologici del lutto: lo shock immediato, il successivo rifiuto, l'impotenza nel far fronte a un evento del genere.

Radiografia di una perdita

Numerosi sono i film incentrati sul senso della perdita e sull'elaborazione del lutto. Numerosi sono anche i film dedicati alle "vittime di guerra" e ai loro cari sopravvissuti (la filmografia americana pullula di gelidi ritratti mortuari causati dalla ferita del Vietnam). L'estenuante conflitto iracheno e la sua ricaduta sulla società civile statunitense hanno riacceso l'interesse nei confronti di simili tematiche, anche se forse ci vorrà ancora del tempo prima di riuscire a maturare uno sguardo compiuto e distaccato che si erga al di là delle (immense, ma contingenti) tragedie quotidiane.

Grace Is Gone, rispetto ai tanti film che lo hanno preceduto, si segnala per l'insolito ribaltamento "di genere" che si verifica in contesto bellico. A essere caduta sul fronte iracheno è, per l'appunto, un soldato donna, la Grace del titolo, che lascia un marito vedovo, Stanley, e due figlie orfane, Heidi e Dawn. Stanley ha sempre creduto nell'istituzione militare: arruolatosi subito dopo il liceo (ha conosciuto Grace in caserma), è stato in seguito riformato per problemi alla vista. La moglie è dunque partita per l'Iraq, lasciando solo Stanley nel compito a lui poco consono di badare alla famiglia e crescere le figlie. All'inizio del film, provoca un'indubbia sensazione di straniamento vedere Stanley, unico uomo in un circolo di donne con mariti al fronte, che viene interrogato sull'ultima notte d'amore passata con la sua sposa prima della partenza.

Il film, tuttavia, abbandona quasi subito i tratti dell'analisi sociologica e di costume per concentrarsi unicamente sul tema universale della perdita. Grace Is Gone non è altri che un saggio (soprattutto attoriale) sui diversi stati psicologici del lutto: lo shock immediato, il successivo rifiuto, l'impotenza nel far fronte a un evento del genere soprattutto nei riguardi delle figlie, infine la graduale e dolorosa accettazione della realtà. È l'analisi diventa tanto più sottile in quanto a essere coinvolte sono le piccole Heidi e Dawn, ancora nell'età dell'innocenza. Stanley non trova la forza di dire la verità alle figlie e vorrebbe prolungare il loro stato di incoscienza per sempre. Nel vano tentativo di fuggire dalla realtà decide di portarle in un parco di divertimenti, "Enchanted Gardens", da tempo al centro dei sogni delle ragazzine. Ma anche in questo non-luogo da favola di plastica, pensato per ottundere sentimenti e provocare ovattate emozioni artificiali, non c'è modo per evitare che si insinui il mondo reale.

L'aspetto più interessante di Grace Is Gone è proprio il suo essere un racconto di formazione delle due bambine, che segna il passaggio dalla loro infanzia all'età adulta. L'evoluzione si nota soprattutto in Heidi, sicuramente il personaggio più complesso e problematico dell'intero film. Stanley, infatti, confermando la sua natura di "miope" non solo dal punto di vista fisico ma anche mentale, rifiuta anche dopo la morte della moglie di mettere in discussione le istituzioni e il loro operato. In lui non matura mai una vera e propria presa di coscienza, come ci si aspetterebbe in una situazione del genere. E naturalmente non serve a nulla contrapporre il suo personaggio a quello del fratello John, l'unico rappresentante dell'alternativa liberal e pacifista all'interno del film, che è dipinto non a caso come un inetto nullafacente, in nessun caso credibile.

Allora, in modo inaspettato, la chiave del film arriva proprio da una bambina di dodici anni, l'unico personaggio che si pone in modo problematico nei confronti della realtà in cui vive e che guarda di nascosto i telegiornali, proibiti dal padre. È soprattutto grazie a Heidi se riesce a passare un messaggio di rifiuto degli schermi protettivi e delle barriere consumistiche che la società costruisce per annullare i propri conflitti. È grazie a lei se, alla fine, Grace Is Gone sancisce nonostante tutto la necessità di venire a patti con il dolore e con la morte, come stadio fondamentale della maturazione individuale.

James C. Strouse nasce come sceneggiatore (con Lonesome Jim) e anche in questo suo esordio alla regia mantiene inalterata la tendenza al predominio della scrittura. Va detto che Strouse non riesce sempre a trattare un tema così delicato con il rigore necessario, cadendo a volte in soluzioni stucchevoli (come la piccola Dawn che punta la sveglia alla stessa ora della mamma per sentirla vicina). La macchina da presa si eclissa e lascia tutto il campo libero agli attori, che mai come in questo caso costituiscono i cardini su cui poggia l'intero film. A partire ovviamente dalla grande prova di John Cusack, che ha voluto fortemente questa parte tanto da essere coinvolto anche in veste di produttore, sperando in una definitiva consacrazione ufficiale (magari con un Oscar).
Nota a margine per la colonna sonora confezionata da Clint Eastwood, dall'inconfondibile minimalismo, che pero fa uno strano effetto sentire in un'opera non diretta da lui.