In attesa dell'uscita in più di trecento sale italiane, da questo week-end, di Romanzo Criminale, il supercast del film, comprendente Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi e Anna Mouglalis con a capo il regista Michele Placido, ha parlato di vari aspetti inerenti la realizzazione e il significato della pellicola, oltre ai più classici commenti sul confronto con l'opera letteraria da cui è tratto, in un incontro non privo di vari momenti di tensione. La conferma di un rapporto non idilliaco tra Placido ed i giornalisti italiani non inficia assolutamente, comunque, il valore di un film importante per forza produttiva e raro appeal sul pubblico nostrano; un film su cui intendiamo parlare e riferirvi al di fuori di sterili ed anacronistiche polemiche.
Com'è avvenuta sotto il profilo produttivo la scelta e quindi l'acquisizione dei diritti del romanzo di Giancarlo de Cataldo? Riccardo Tozzi: Sarò del tutto sincero. Prima di comprendere realmente quale fosse l'angolazione narrativa del romanzo, il mio interesse verso questa storia era assolutamente nullo. Quando Severino Cesari, me ne parlò, il libro era in fase di scrittura e pensavo fosse la solita storia di gangster tratta dai fatti della banda della magliana. Ciò che mi ha invece convinto immediatamente, facendomi del tutto cambiare opinione, era l'idea geniale di raccontare tutto dal punto di vista della banda. In questo modo, il racconto assume una valenza epica perché cade ogni retorica ed ideologia, ogni punto di vista giudicante e meramente illustrativo sulla vicenda.
Il vostro in un certo modo è un film molto coraggioso, perché racconta pagine buie della nostra storia politica, attraverso una banda di criminali. Questo elemento politico, molto forte e presente nel libro di De Cataldo, pare ancora più enfatizzato nel film, o non è così? Stefano Rulli: Personalmente, quando mi sono avvicinato al romanzo, per scriverne la sceneggiatura, l'ho trovato, oltre che notevole, sotto il profilo qualitativo, già estremamente politico. Non si tratta di una storia di gangster nostrani dal fiato corto; non c'è mai il pericoloso rischio di scimmiottare il cinema americano sul crimine. Il potere ed il sottopotere politico sono sempre presenti nel libro di Giancarlo De Cataldo. Probabilmente il cinema rende più evidenti e potenti per motivi di linguaggio alcuni di questi riferimenti.
Giancarlo De Cataldo: E' un interpretazione che ci può stare sicuramente. Letteratura e cinema sono due linguaggi molto diversi. Per questa ragione io trovo sempre giusto e giustificato ogni modifica portata nella fase di riscrittura. Inoltre, io credo che più che essere enfatizzata, nel film la parte politica è stata affinata. Si tratta di un discorso meramente temporale: sono passati degli anni e c sono più punti fermi per trattare taluni argomenti. Abbiamo in estrema sintesi, un maggiore capitale di memoria e un importante attività giudiziaria alle spalle, per riferirci ai momenti indagati nel libro, come nella pellicola.
Michele Placido: La politica c'è e ci deve essere! Sta nella mia cultura, nel patrimonio che ho ereditato da Rosi e da tutti i maestri che mi hanno formato, l'idea che si possa e si debba fare del cinema in grado di far uscire gli scheletri dall'armadio. In questo ho messo tutto me stesso. Mi sono commosso ed appassionato a girare il film, a prescindere dal risultato.
Per questo film, è stato messo su un grandissimo cast con il meglio del nostro cinema. Come sono state assegnate le parti? Michele Placido: Caso più unico che raro, ognuno si è scelto il personaggio che voleva interpretare e che riteneva più vicino alle sue corde. Questo ha fatto grande onore a tutti gli interpreti e dimostra la loro volontà di sentirsi parte integrante del progetto. Stefano Accorsi per esempio, ha scelto un personaggio difficile, ambiguo, molto negativo e ci si è dedicato con grande cura. Non è stato facile. Ci sono stati problemi, anche scontri, perfino in fase di montaggio, ma di certo non è mancata la grande partecipazione.
Per quanto concerne le interpretazioni: come vi siete avvicinati a questi personaggi per interpretarli? Non trovate abbiamo anche una certo fascino ambiguo, presente nelle loro personalità, specie nell'aspetto qualificante dell'amicizia ? Kim Rossi Stuart: Certamente! L'amicizia rappresenta il fulcro drammaturgico del film ed è un sentimento che per quanto riguarda il mio personaggio (Freddo), lo riconduco anche ad una certa romanità e ai suoi codici. Io non ho pensato ad un personaggio totalmente negativo. Ho dovuto un po' amarlo per rappresentarlo e l'amicizia era il sentimento più corretto per esserne affascinato. D'altronde parliamo di quattro disgraziati che invece di lavorare, decidono di darsi alla delinquenza. Ma anche nel romanzo si può scorgere l'amore per questi ragazzi ed il loro quadro psicologico è vastissimo, di una ricchezza sconfinata. Questa cura anche dei più minimi particolari, mi ha aiutato moltissimo nell'interpretazione. A quel punto è bastato aggiungerci un po' della mia esperienza e conoscenza di Roma e dei tipi sociali che la popolano.
Stefano Accorsi: Il mio personaggio mi ha subito affascinato per la sua complessità. Non era il classico buono che diventa cattivo, quanto un uomo che si scopre nell'azione e che ha dentro sé stesso già tutti gli elementi. Nel suo percorso ci dice tutto, si scopre. E' per questa ragione che sentivo fuorviante il suo lato romantico. Ce lo mette in una luce sbagliata in quanto sostanzialmente siamo di fronte ad un borghese piccolo piccolo, dalle grandi ambizioni e non di fronte ad un integerrimo e zelante sognatore dal facile innamoramento.