Si potrebbe approcciare ad un'analisi di Quarto potere di Orson Welles partendo da un'infinità di spunti differenti e validi senza riuscire comunque né a restituire completamente l'importanza che la pellicola del 1941 ha avuto per la Storia del Cinema né, tanto meno, a riassumere tutti i motivi per cui è entrata nell'immaginario collettivo. Potremmo elencare le innovazioni tecnologiche riscontrabili nel lavoro scenografico, nella presa del sonoro e nel comparto fotografico guidato dal veterano Gregg Toland, o potremmo ripercorre le vicissitudini eccezionali che hanno portato un esordiente ad avere carta bianca da una major come la RKO, citando il contenzioso legato alla paternità di una sceneggiatura rivoluzionaria (l'affaire Mankiewicz), narrato più volte anche al cinema.
Questo perché parliamo del film che per molti critici ha segnato l'inizio del cinema moderno: nessun altro è stato in grado di segnare una nuova via in seguito all'epocale passaggio che sancì, poco più di un decennio prima, la fine dell'era del muto. Le mire di Orson Welles erano quelle di prendere le lezioni dell'espressionismo tedesco, di Ėjzenštejn, di Chaplin e di Méliès e di fonderle insieme per creare qualcosa non solo di mai visto, ma con cui le pellicole del futuro avrebbero dovuto fare i conti da lì in avanti.
Un'operazione così ambiziosa non poteva che imporsi sulla sua trama. Il film di Welles fu infatti in grado di anticipare l'intera politica contemporanea basata sulla creazione dell'immagine illusoria e che ha utilizzato in modo sempre più aggressivo la comunicazione, facendone un'arma per il controllo delle masse. "Su come far pensare la gente" direbbe Kane. Con un appunto: quando Quarto potere (Citizen Kane, titolo originale) torna al cinema è sempre un evento speciale, ecco perché non si può che fare un plauso a I Wonder Pictures, che, nell'ambito della sua iniziativa I Wonder Classics, dedicata alla riscoperta dei classici d'autore, lo riporta nelle sale italiane dal 24 marzo in edizione originale sottotitolata.
Quarto potere: il costo della rivoluzione
"Appartengo a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film avendo visto Quarto potere." (François Truffaut)
La decisione di un tema del genere, così potente, ma anche così ingombrante già all'epoca, non si rivelò con il senno di poi una scelta ottimale per la carriera di Orson Welles, il quale attirò su di sé delle antipatie che non si scrollò mai di dosso da parte di chi si sentì tirato in causa, direttamente o indirettamente, nella sua prima pellicola. Quarto potere è la ricostruzione della vita del fittizio Charles Foster Kane (interpretato dallo stesso regista), un potentissimo magnate dell'editoria, che a dispetto di una vita sempre in copertina e permeata da un successo (apparente) in ogni ambito possibile e immaginabile, si ritrova in punto di morte da solo, autoesiliatosi nel suo enorme (e famigerato) castello di Candalù in Florida. Stretta nel suo pugno una palla di vetro con all'interno la neve, nel suo ultimo respiro la parola "Rosabella" (Rosebud in originale.)
Nulla di strano, se non fosse che il personaggio di Kane sia dichiaratamente ispirato alla figura di William Randolph Hearst, all'epoca a capo del più importante impero mediatico del mondo occidentale, in grado di orientare a suo piacimento l'intera opinione pubblica statunitense. Una versione cinematografica fortemente critica, che lo ritrae come un uomo che non si fa problema alcuno a ricorrere a qualsiasi mezzo per favorire la sua ascesa politica. Ecco perché al momento della sua uscita, Quarto potere, nonostante il successo universale di critica, fu un vero flop al botteghino perché vittima di un boicottaggio scientifico, perpetrato ai suoi danni da quell'enorme fetta di stampa riconducibile proprio a Hearst. Inizio di una campagna che, nonostante la quiete che portò la pellicola ad ottenere nove nomination agli Oscar e ad una vittoria (per la sceneggiatura), non abbandonò mai del tutto Welles.
La fine dell'illusione
La scelta di Orson Welles (o di Welles e Mankiewicz) ricadde sul personaggio di Kane perché attraverso di esso vedeva la possibilità di smontare pezzo per pezzo una figura in grado di rappresentare metaforicamente il più grande (quasi eccessivo) e quindi contraddittorio compimento del Sogno Americano. Un mito costruito su di una retorica interamente improntata sul successo dell'uomo-capitale, che nella corsa ad accumulare danaro e potere può ottenere il premio di controllare la comunicazione stessa della Storia. Essere creatore della propria illusione, a patto che accetti di diventarne prigioniero. La pellicola nasce allora dalla geniale intuizione di utilizzare lo strumento illusorio per eccellenza, il cinema, per destrutturare la narrazione di una versione fittizia di una Nazione intera, rappresentata dall'immagine miracolosa di un uomo che ereditando l'oro da giovanissimo costruì mattone su mattone una fortuna inestimabile.
E lo fa prima grazie all'invenzione del mockumentary (attraverso la trovata del cinegiornale) e poi ad una rivoluzione di scrittura che mise da parte la classica divisione in tre atti per creare un mosaico di flashback composto dalle testimonianze delle persone a lui vicine. Una scomposizione simbolo di un'operazione chirurgica che vuole smontare l'illusione, e dunque detronizzare quel racconto che ha il compito di distrarre dalla verità. La fine dell'illusione grazie all'arrivo della modernità, di nuovi strumenti e di nuove consapevolezze. Tutto ciò rende la pellicola di Welles la più grande opera cinematografica rivelatrice della reale natura della narrazione e, in modo più generale, della comunicazione, anticipatrice soprattutto dell'uso che se ne farà sempre più in ambito politico, dove la propaganda e il culto del mittente e dei suoi simili sono pilastri fondamentali e principali oppositori della verità.
Da linguaggio usato per creare illusione il cinema diventa, in Quarto potere, un linguaggio capace di riscrivere la costruzione della narrazione stessa. Non per questo però il suo potere diviene illimitato, perché Welles ha l'accortezza di mettere un limite alla capacità analitica del cinema e alla capacità illusoria della narrazione. Al centro della natura umana rimane sempre un nucleo di misterioso e di magico. Ciò che, paradossalmente, ci fa ancora venir voglia di raccontare storie o di ascoltarle, ecco perché alla fine, la cosa più preziosa del film rimane proprio un'emblematico cartello con scritto: NO TRESPASSING.