Recensione Factory Girl (2006)

La regia di George Hickenlooper è sporca e intensa, le immagini sono graffiate e i colori ricordano il torbido cromatismo delle pellicole anni '60-'70, come per voler riprendere proprio lo stile filmico di Warhol che cercava di esprimere l'autenticità del cinema rivelandone i difetti.

Quando la fama brucia l'anima

È stata l'amore segreto di Andy Warhol, la sua musa, un'icona dalla fragile ed eterea bellezza che da giovanissima ha toccato l'apice e il profondo abisso del successo. Era un'opera d'arte pop in carne e ossa, era la Factory Girl Edie Sedgwick.
Spesse e lunghissime ciglia nere, corti capelli biondi con provocatoria ricrescita scura, una pelliccia di ermellino sopra un body e un paio di calze di lana, tacchi vertiginosi ed enormi orecchini a dir poco appariscenti: lusso sfrontato a dipingere un corpo gracile e un viso d'angelo. Sienna Miller (Casanova, Alfie) veste i panni ultra glamourous di colei che non seguiva o precedeva la moda, ma che era la moda.

Edie Sedgwick è una giovane pittrice appena uscita dall'università, nonché ricca ereditiera, che arriva a New York con l'ingenuità di una scolaretta, attratta dalla vita degli artisti d'avanguardia. Abbagliata dalle pareti argentate della Factory e dall'aura mistica che circonda Andy Warhol, Edie accetta di fare da attrice per un suo film, diventando da quel momento la sua "superstar".
Il suo spirito disinibito, la sua fanciullesca voglia di provare cose nuove e di far parte di qualcosa di unico portano l'acerba ragazza a plasmarsi anima e corpo allo stile della Factory.
La comunità di Warhol non è solo un laboratorio artistico, ma un insieme di persone del tutto fuori dagli schemi che fanno dell'abbattimento dei tabù la loro vita, oltre che la loro arte. Sesso, droga, feste, moda, arte e amore si mischiavano in un cocktail di eccessi che sembra assurgere solo alla fatua celebrità.
Edie è bellissima e, grazie alla stretta amicizia con Warhol, diventa presto un'icona che trasforma, anche senza volerlo, ogni suo capriccio d'abbigliamento in un nuovo trend imitato da tutti.

"Andy prendeva cose comuni e le faceva diventare qualcosa di speciale": così diceva Edie e così funzionava il meccanismo col quale l'artista eleggeva a opere d'arte le scatolette di fagioli, come le stesse persone. Essere particolari, glamour ed eccentrici, nelle sue mani e nella sua Factory, poteva essere il la per trasformarsi in un attimo in un pezzo d'arte vivente. Ma con la stessa smodata velocità poteva finire tutto, riducendo la star ad un niente senza significato, ormai fuori moda.
In un'arte che è contraddizione stessa tra bello e brutto, tra oggetto e opera in riproduzione industriale, dove tutto si sposta leggero sul confine del no-sense, della trasgressione e dello sperimentare il mai provato, la superficialità può diventare diabolica.
La fama può durare una notte, una settimana, una stagione e poi svanire nel nulla, nelle siringhe di speed, nei mozziconi di sigarette, tra montagne di Brillo Box.
Il costo della celebrità è il passaggio dall'essere un dio all'essere un nessuno. Rimanere intrappolati in questa morsa, come succede alla piccola Edie, vuol dire essere autodistrutti dal proprio successo.
Nemmeno l'amore riesce a salvarla, neanche la passione le fa abbandonare la sua vita da diva pop e il suo legame con Andy. Solo la sua tragica ascesa ne deciderà la fine.

La regia di George Hickenlooper (L'Ultimo Gigolò) è sporca e intensa, le immagini sono graffiate e i colori ricordano il torbido cromatismo delle pellicole anni '60-'70, come per voler riprendere proprio lo stile filmico di Warhol che cercava di esprimere l'autenticità del cinema rivelandone i difetti.
L'Andy Warhol di Factory Girl è interpretato con bravura e sorprendente trasformazione fisica da Guy Pearce (L.A. Confidential, Memento), mentre il misterioso e affascinante musicista di cui s'innamora la protagonista è l'ex Anakin Sywalker della seconda trilogia di Star Wars Hayden Christensen. In una piccola ma significativa parte, anche Mena Suvari (la famosa sexy ragazzina, coperta di petali nei sogni di Kevin Spacey in American Beauty), ma il plauso più sentito va alla Miller, che dimostra di aver superato i ruoli da femme fatale che sfruttavano solo la sua indiscussa bellezza.

Conservando il biglietto del cinema, si ha diritto ad uno sconto per l'ingresso alla mostra "Pop Art! 1956-1968" in corso alle Scuderie del Quirinale a Roma fino al 27 gennaio 2007.