Pupi Avati, un poeta fuori da coro, anche in tv

Interessante key note con il regista bolognese che al Roma Fiction Fest annuncia il suo ritorno sul piccolo schermo dopo il successo di Jazz Band; 'Racconterò la storia scandalosa di una coppia che si ama da 50 anni'.

Dice di non amare troppo la televisione Pupi Avati, di essere uno spettatore poco attento e preparato. Eppure durante la key note a lui dedicata dal Roma Fiction Festival ha intrattenuto il pubblico del Teatro Studio per un'ora abbondante, raccontando a cuore aperto il personalissimo rapporto con il piccolo schermo, un mezzo in realtà profondamente apprezzato dall'autore bolognese per la sua versatilità e la capacità di raggiungere il grande pubblico e ora vicino più che mai. Il regista infatti è pronto al grande rientro in RAI con una fiction a suo dire scandalosa, il racconto del Secondo Dopoguerra narrato attraverso la storia di un matrimonio durato mezzo secolo. A oltre 30 anni di distanza dal suo grande successo sulla Prima Rete, quel Jazz Band che all'epoca divenne un fenomeno di costume, Pupi Avati torna in trincea, con un bagaglio di esperienza che in pochi possono vantare. "Era la fine degli anni '70. Allora non si parlava di fiction ma di sceneggiato. Ed erano firmati da artisti del calibro di Sandro Bolchi e Anton Giulio Majano - racconta con un pizzico di malinconia - Ero in crisi profonda dopo l'insuccesso di Balsamus - L'uomo di Satana e inaspettatamente arrivò la proposta dell'allora direttore generale della RAI, Mimmo Scarano. Mi chiese se volevo fare qualcosa per loro e io declinai l'offerta. Troppe volte avevo fatto anticamera nei corridoi della RAI senza essere nemmeno ricevuto. Ma lui insistette e mi chiese di presentargli un'idea per uno sceneggiato. Avevo un'idea, ma non era affatto televisiva". Lo spunto per scrivere Jazz Band era arrivato durante una pausa della lavorazione di La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, con Ugo Tognazzi. "Ero al ristorante con Ugo quando mi accorgo di un signore calvo che ci fissava - spiega - pensavo ce l'avesse con Tognazzi, invece quando vado a pagare il conto si avvicina a me e si presenta. Era il mio amico Sandro e ci invitò a seguirlo in cantina. Riconobbi subito quelle note, erano quelle del mio vecchio gruppo jazz. Eravamo gli stessi di alcuni anni prima, forse solo un po' incanutiti. Non ho potuto fare a meno di chiedermi chi eravamo stati, quali fossero i nostri sogni. tre mesi dopo stavo girando a Bologna Jazz Band. Ed è stata per me una grandissima lezione, in tv ho imparato a lavorare a basso costo".

Erano anni difficili quelli, anni in cui l'Italia si stava confrontando con il caso Moro. "C'erano differenze generazionali incredibili tra adulti e ragazzi. Dovevo fare il casting e scegliere degli attori piuttosto giovani ed ero terrorizzato dall'idea che quella storiellina pulita potesse non piacergli. Invece furono proprio i ragazzi a condividerla e il grande successo di Jazz Band mi fece rendere conto della differenza enorme tra cinema e tv". Un successo quantificabile in una platea di 13 milioni di telespettatori. "Ricordo che la gente mi fermava per strada per chiedermi quando andasse in onda la seconda puntata. Una cosa incredibile. La tv permette davvero di incontrare il paese reale e noi autori abbiamo sbagliato a non cogliere l'opportunità che ci veniva dalla tv commerciale. E' vero, "Non si interrompe un'emozione" è uno slogan che funzionava, ma la pubblicità ci avrebbe permesso di incontrare una platea che oggi ci sogniamo".
Oggi a sognare è lui, grazie ad un progetto nuovo di zecca su cui la RAI punta molto. "E li ringrazio per questo. In tempi come questi, in cui si punta su storie molto forti e trasgressive loro rischiano forte producendo un'opera 'scandalosa' come la mia, la storia in controdenza di un matrimonio che dura 50 anni. E in questo periodo racconto anche la storia d'Italia nel Secondo Dopoguerra". E nell'Italia del Dopoguerra la tv è stato il mezzo di comunicazione più importante, rappresentando per il cinema ciò che la Settima Arte era, ai suoi albori, per il teatro. "Non avevo capito quale fosse la differenza tra cinema e tv - spiega ancora Avati - lo chiesi ad un maestro come Sandro Bolchi che conobbi quando girai uno spot di Carosello per la Cynar con Alberto Lionello. Mi disse che andavano banditi i campi lunghi, che avrebbero dovuto esserci molti più primi piani rispetto ad un film e soprattutto mi ha spiegato che bisognava dare allo spettatore il tempo di fare delle cose, andare al bagno per esempio. Quindi se un personaggio doveva salire una scala, i gradini doveva farli tutti dal primo all'ultimo. Certo, queste sono cose che si teorizzano, ma difficilmente poi si mettono in pratica. In fondo io giro sempre nella stessa maniera. Faccio quello che sono e non trasgredirò mai. E' il prezzo che pago da 43 anni. Mi spaventa quella certa frenesia stilistica che a volte nasconde una mancanza drammaturgica".
Nelle parole di Pupi Avati non c'è astio. "Non voglio e non posso generalizzare - commenta - C'è una televisione bella e una brutta, ma quando so che sette milioni di italiani possono mettersi davanti al televisore per guardare una mia fiction, allora avverto una certa responsabilità e mi dico che devo provarci a fare quacosa di diverso, a rischiare". E il cinema? Continua ad essere il grande amore di Pupi Avati che proprio al Festival di Roma presenterà in concorso Il cuore grande delle ragazze, con Micaela Ramazzotti. "Mi muovo con una certa facilità nel mondo del cinema. Se devo fare un film, mi limito a raccontarlo a voce ai rappresentanti di Medusa o Rai Cinema e dopo una stretta di mano il più è fatto. In televisione non è esattamente così. I funzionari ti seguono con estrema attenzione e hanno un certo ascendente su di te. L'errore più grande che abbiamo commesso è stato quello di lasciare che le terze linee si occupassero di tutto e adesso è difficile rientrare. Anche perché la tv ha un suo star system". Ultima nota dedicata ad uno dei suoi attori più amati, Diego Abatantuono, fresco di debutto registico nella fiction televisiva di Mediaset, Area paradiso. Come immagina l'Abatantuono regista? "Lo immagino come un regista strano - conclude - è come vedere me come attore. La verità è che Diego è talmente talentuoso e vero che induce gli attori ad essere veri, a non recitare. Se la sceneggiatura è solo carina, lui ha la capacità di migliorarla".