Recensione Shanghai Dreams (2005)

Xiaoshuai realizza il suo film più personale, raccontando una storia che nasce dalle sue esperienze e dai ricordi rimasti più vivi.

Prigioni cinesi

C'è voglia di cambiamento in Cina, dove finalmente per rilanciare il cinema stanno cadendo uno dopo l'altro i muri censori che rischiavano seriamente di affossarlo. Succede così che Wang Xiaoshuai, esponente della cosiddetta Sesta generazione di cineasti cinesi, in cima alla lista nera della censura governativa e cantore del malessere e delle contraddizioni di una società in mutamento inesorabile, trovi finalmente sbocco in sala dopo anni passati tra clandestinità (all'epoca del disturbante Frozen fu costretto a camuffarsi dietro lo pseudonimo di Wu Ming) e ingiustificabili veti (i suoi connazionali non hanno mai potuto apprezzare su grande schermo Le biciclette di Pechino, la cui distribuzione è stata bloccata perché presentato al Festival di Berlino senza autorizzazione). Nessuno sconto per l'occasione, però, da parte di un regista dotato da sempre di un'ammirevole sensibilità nel trattare i piccoli e grandi problemi della società cinese e capace di denunciarne gli aspetti più perversi con estrema sensibilità: anche Shanghai dreams, come tutto il suo cinema, è un'opera pervasa da una profonda, spietata amarezza.

Xiaoshuai realizza il suo film più personale, raccontando una storia che nasce dalle sue esperienze e dai ricordi rimasti più vivi. Come i protagonisti del suo nuovo film, anche la famiglia del regista di Shanghai fu costretta dal governo a trasferirsi, a metà degli anni Sessanta, nell'entroterra, come precauzione contro la minaccia sovietica e per costituire una Terza Linea di Difesa attraverso il trasferimento delle fabbriche dalle coste alle zone più remote della nazione, in questo caso Guyang, capitale della provincia di Guizhou. Venti anni dopo i pericoli sono cambiati e il governo si trova a dover frenare con ogni mezzo il vento di modernizzazione che soffia da Occidente. Gli altoparlanti a scuola ricordano ogni giorno agli studenti la lista dei divieti: niente capelli sciolti, barba o basette lunghe, così come banditi sono i pantaloni a zampa d'elefante. E mentre Mamma Cina è impegnata a non far entrare in casa gli spifferi democratici, così un padre-padrone qualunque tenta di tenere dentro la propria una figlia diciannovenne pronta a volar via, animata dai primi sussurri amorosi. I loro sogni sono profondamente diversi: Wu Zemin aspetta impaziente il giorno in cui potrà fare ritorno, insieme a tutta la famiglia, alla sua Shanghai, ma nel frattempo vorrebbe vedere la ragazza studiare senza distrazioni per arrivare all'università dove costruirsi un futuro diverso; Qing Hong, invece, accarezza le scarpette rosse che un ragazzo timido e innamorato le ha regalato e non vorrebbe vivere in altro luogo che quello dove abita, il posto dove è cresciuta e che sente come proprio.

Dopo aver esplorato la realtà urbana dei vicoli metropolitani e delle città costiere della Cina di oggi, Xiaoshuai fa un passo indietro, per raccontare la Cina rurale degli anni Ottanta, come al solito pullulante di una gioventù abbandonata, disorientata dalle imposizioni di un regime allo sbando. La libertà per i ragazzi di Guyang è da ricercarsi sulla pista da ballo delle feste clandestine, dove il bulletto di paese può atteggiarsi a Tony Manero e sfoggiare ciuffo e camicia gialla per abbordare le ragazze. Eppure anche in quei momenti domina l'alienazione: le ragazze restano lontane dal centro pista, strette nelle loro spalle incollate alle pareti, mentre i ragazzi sono costretti a ballare tra di loro. L'incomunicabilità, marca distintiva del cinema asiatico, si ritrova in Shanghai dreams a tre livelli: tra giovani incapaci di rapportarsi liberamente tra di loro, tra genitori e figli animati da sogni contrastanti e tra cittadini "schiavi" e governo autoritario. Su di loro una profonda disperazione che trasforma un abbraccio in stupro, la disillusione in tentativi di suicidio e la giustizia in pena di morte.

Presentato al Festival di Cannes 2005, il film ha ottenuto il Premio della giuria, consacrando definitivamente Wang Xiaoshuai, già apprezzato in tutto il mondo dopo il successo de Le biciclette di Pechino, un evidente omaggio al capolavoro neorealista Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Tra questo e il suo ultimo lavoro, c'è stato lo splendido Drifters, il delicato ritratto di un padre vittima del fallimento del sogno americano, purtroppo mai approdato nelle nostre sale. Shanghai dreams è, invece, il suo film meno riuscito, caratterizzato da una serie di (inevitabili?) stereotipi tali da rendere scontata la successione dei tragici eventi che conducono, con una lentezza esasperante, al dramma finale. Xiaoshuai (che, sebbene sia un buon regista, non è certo Tsai Ming-Liang) costruisce, col tatto che gli è proprio, un film duro, fatto di colori grigi, tempi lunghi, immobilità della camera, distanza marcata dai corpi, ripetitività di azioni e situazioni, elementi stilistici che se non supportati da una storia interessante o da un soffio di poesia possono risultare indigesti.