Precari sul lavoro, precari nel cuore
Dopo i lavoratori dell'Atesia chiamati in causa da Ascanio Celestini in Parole Sante, dopo l'umorismo acido esibito da Paolo Virzì in Tutta la vita davanti, è evidente che uno dei fenomeni sociali più inquietanti degli ultimi anni, il dilagare del precariato, fa sempre più rima con quei luoghi sinistri chiamati call center. Soprattutto al cinema. Già, perché quel cinema italiano che su altri argomenti di scottante attualità continua ad essere reticente o ad esibire il suo imbarazzo, ogniqualvolta si tenti di operare un'analisi più approfondita, almeno di fronte allo scandalo dei call center non ce la fa a girare la testa dall'altra parte. Al contrario, come dimostrano i titoli fatti poc'anzi, sono proprio gli autori maggiormente dotati a livello umoristico quelli che hanno saputo portare avanti il vessillo di un cinema di impegno civile cui non difetta certo l'ironia, sebbene si tratti di un'ironia molto amara, in certi casi addirittura feroce.
Qualcuno ne resterà sorpreso, ma è da un vero e proprio outsider come il brindisino Federico Rizzo che è arrivata una delle opere più fresche, beffarde, sottilmente corrosive, tra quelle realizzate finora a ridosso di tali temi. Le motivazioni del giovane cineasta sono indubbiamente forti, avendo egli lavorato in un call center per circa tre anni. Va anche aggiunto che al primo lungometraggio Rizzo ci è arrivato tramite studi cinematografici molto seri, focalizzati in particolare sulla poetica di Ermanno Olmi, nonché sfornando una serie di cortometraggi accolti con un certo interesse nel circuito dei festival. Abbiamo voluto sottolinare un simile background, anche perché dopo aver visionato negli ultimi mesi diversi esordi italiani parecchio mediocri, insipidi, artificiosi, in Fuga dal call center abbiamo rinvenuto uno spirito genuino associato a risorse espressive da non sottovalutare. Tra le armi di cui si è servito il regista per introdurci nel pazzesco universo dei call center vi è senz'altro il paradosso. Sin dall'inizio il viaggio negli orrori del precariato del giovane Gianfranco Coldrin, laureato in vulcanologia, si colora di tinte surreali, con colloqui di lavoro e incontri di vario genere raccontati ricorrendo a un'ironia davvero spiazzante. Tra improbabili figure di "tutor" e capi-ufficio perennemente intenti ad abbordare le segretarie, non mancano maschere saturnine dalle uscite verbali esilaranti, il cui macchiettismo non è mai fine a se stesso ma aiuta invece a focalizzare il contesto. Già, perché in Fuga dal call center si ride davvero tanto, complici alcuni dialoghi al limite del nonsense. Ma si ride anche amaro, come è giusto che sia.
Quando gli ambienti impersonali del call center salgono in primo piano l'impronta farsesca del film tocca forse l'apice, regalando apologhi surreali degni del miglior Sandro Baldoni, quello di Strane storie, per intenderci. Da antologia le sequenze che vedono i clienti di un centro scommesse puntare a distanza sulla produttività degli operatori telefonici, tutti laureati con trenta e lode ma ugualmente schiavizzati dal sistema. Ancora più folle l'invenzione dell'improbabile supereroe dei call center, Call Man, che appare allo stessatissimo protagonista in uno dei tanti momenti allucinatori. Il repentino cambio di illuminazione operato, con classe e naturalezza, in questa ed altre scene a carattere onirico, ci offre lo spunto per ricordare un contributo tecnico e artistico di prim'ordine, quello offerto da Luca Bigazzi, uno dei migliori direttori della fotografia attivi nel cinema di casa nostra. La sua duttilità e la capacità di giocare con diverse opzioni stilistiche, a partire dalla macchina a mano, si è rivelata di grande utilità per il progetto cinematografico di Rizzo, fondato anche sulla frammentarietà dei materiali, sull'assorbimento in un contesto narrativo di parti semi-documentaristiche, rappresentate ad esempio dalle brevi e curiose interviste a veri operatori dei call center raccolte in diverse zone d'Italia.