È inusuale, perlomeno al cinema, vedere una Roma come quella dipinta nel film Piove dal regista e sceneggiatore Paolo Strippoli: privata degli elementi che ne hanno sempre contraddistinto l'iconografia più canonica, la città eterna assume qui un aspetto cupo, livido, da apocalisse imminente. Uno scenario urbano in grado di risultare al contempo universale e specifico: la Roma di Piove è come l'inferno a cielo aperto - e battuto da un diluvio di proporzioni bibliche - che faceva da teatro all'indagine di Seven, ma è anche una metropoli dotata di chiari segni distintivi, a partire dal vernacolo dei propri abitanti. A suo modo, una città-personaggio nella misura in cui, all'interno del racconto, diventa l'alveo di un malessere endemico che si sviluppa in un contesto assolutamente quotidiano e, pertanto, angosciosamente credibile; un'operazione analoga per certi versi a quella compiuta da Gabriele Mainetti per Lo chiamavano Jeeg Robot o, cambiando il medium, da Stephen King per la Derry che fa da cornice al suo It.
Roman Horror Story
Il ruolo peculiare di Roma, in equilibrio tra identificabilità e adesione all'archetipo (i suoi toni plumbei che potrebbero ricordare una variante di Gotham City), costituisce uno dei numerosi elementi d'originalità e d'interesse relativi a Piove, secondo cimento dietro la macchina da presa del giovane regista pugliese Paolo Strippoli, nonché il primo da 'solista' dopo il debutto con A Classic Horror Story. Dal raggelante incipit, segnato da una discesa (in senso addirittura letterale) nelle viscere oscure e limacciose della città, Piove ci mostra un microcosmo sull'orlo del baratro: un baratro morale che prende forma nell'abisso di mostruosità verso cui ci spinge la storia, secondo le convenzioni del genere horror. L'influsso malefico, in questo caso, è indentificato nei fumi esalati dalle fogne e dalle tubature idriche di Roma (il primo dei tre capitoli del film ha il titolo emblematico di Evaporazione): una città avvelenata dal suo stesso marciume, e destinata dunque a cadere preda di un'epidemia ancestrale volta a tramutarne gli abitanti in zombie.
Piove, in sostanza, aggiorna i modelli codificati da cineasti come George A. Romero e John Carpenter, ma mettendo da parte qualunque intento citazionista ed evitando altresì ogni tentazione verso il pastiche postmoderno. Al contrario, l'opera di Paolo Strippoli si prende rigorosamente sul serio, e proprio in questo risiede un altro dei suoi pregi: per novanta minuti non si registrano allentamenti di tensione, né tantomeno strizzate d'occhio o concessioni all'ironia (ironia che, giocoforza, comporterebbe un distacco emotivo dalla vicenda). La violenza mostrata sullo schermo, che è valsa al film un controverso divieto ai minori di diciotto anni, non ha la giocosa esasperazione dello splatter, ma funge da viatico alla concretizzazione di un orrore insieme individuale e collettivo: la follia si propaga come un contagio fra le strade di Roma, preannunciata dalla cronaca nera dei notiziari TV, ma è anche una "questione privata" scaturita dal trauma della famiglia dei protagonisti.
Piove, la recensione del film: Paolo Strippoli passa all'horror metropolitano
L'orrore è un affare di famiglia
Un trauma che si è annidato dentro di loro come un germe silenzioso ma inesorabile: Enrico (Francesco Gheghi), il figlio maggiore, ne porta i segni sul volto, nella cicatrice che gli percorre un intero lato del viso; Barbara (Aurora Menenti), la più piccola, nel corpo, costretto su una sedia a rotelle in attesa di una faticosa riabilitazione (speranza lontana, ma forse ancora a portata di mano). A condividere con loro lo spazio domestico è il padre Thomas (Fabrizio Rongione), testimone quasi inerme di un mondo allo sbando: lo intuiamo dal suo sguardo spento e disilluso; dallo scoraggiamento sempre più rabbioso di fronte agli scarsi progressi della figlia Barbara durante le sedute di fisioterapia; dall'amarezza con cui si rivolge ad un anziano paziente allettato (il veterano Orso Maria Guerrini, in un piccolo ma incisivo ruolo), invidiandone la condizione di infermo ormai separato dalla realtà. Uno scoraggiamento a cui fa da contraltare il nichilismo di Enrico, che con piglio ribellistico sottolinea la propria presa d'atto della mancanza di senso dell'esistenza.
Ed è in particolare la figura di Enrico, anche grazie all'ottima prova di Francesco Gheghi e al suo furioso ritratto di adolescente inquieto, a determinare più di tutto il resto l'intensità incalzante del film di Strippoli. Un film che nella sua radicalità, nella profonda coerenza con cui adopera gli strumenti dell'horror per costruire e scandire il percorso dei personaggi, si staglia come un'audace eccezione nell'ambito del cinema di genere in Italia: audace nella misura in cui sceglie di rivisitare un immaginario orrorifico ben preciso adattandone il linguaggio al proprio contesto di riferimento, ma senza rischiare di snaturarne l'essenza o di ridurne il potenziale. Per questo e per altri motivi, inclusa l'abilità con cui sa trarre da necessità (i limiti di budget) virtù (la cifra stilistica dello squallore urbano), Piove è un progetto che merita appieno la nostra attenzione e il nostro sostegno: non fosse altro perché ci dà prova della vitalità dell'horror in un panorama in cui esempi simili appaiono, appunto, tanto rari quanto preziosi.
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