Non è una questione politica, non è una questione di fazioni, simpatie o antipatie. È semplicemente un dato di fatto: gli USA stanno vivendo in queste ore, ma diciamo pure negli ultimi mesi, alcuni dei momenti più difficili della loro storia recente. Lo scontro tra Hillary Rodham Clinton e Donald Trump è stato brutale in ogni suo aspetto, così come altrettanto lo era stato quello alle primarie tra i due candidati democratici, Bernie Sanders e la stessa Clinton.
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La spaccatura che si è creata prima tra gli elettori dello stesso partito e poi tra democratici e repubblicani è netta come non accadeva da tempo; così come netta (e forse insanabile?) sembra essere la spaccatura anche tra l'americano medio, quello della grande provincia USA, e quello che in qualche modo i media e l'intera industria dello spettacolo statunitense sembrava volerci suggerire. Perché se è evidente che la grande sconfitta di queste elezioni è Hillary, non si può non notare di come anche la stessa Hollywood ne sia uscita davvero male.
Come spesso è accaduto moltissimi attori e registi americani hanno provato a sensibilizzare il grande pubblico attraverso spot, spettacoli, dichiarazioni e interventi pubblici, spesso anche molto divertenti e riusciti, ma è evidente che, proprio come la candidata democratica, non sono riusciti a fare breccia nel cuore e nella mente di coloro che da queste persone, e probabilmente anche dal loro modo di fare cinema o intrattenimento o cultura, non si sentono rappresentate. Ma anzi, probabilmente si sentono prese in giro o insultate.
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La "colpa" è degli attori e di Hollywood?
Fermo restando che i motivi della vittoria di Trump e della sconfitta di Clinton sono molto complessi e certamente meritevoli di essere analizzati da persone ben più competenti e addentro di noi, andrebbe quantomeno notato però di come il panorama cinematografico e televisivo sia cambiato nell'ultimo decennio quando si tratta di raccontare la politica e in particolare i fittizi Presidenti. Se negli anni '90 o all'inizio degli anni 2000, durante e subito dopo l'era (Bill) Clinton, c'erano state addirittura commedie e film romantici sull'argomento (Dave - Presidente per un giorno, Il presidente - Una storia d'amore), sulle First Daughters (Amori in corsa, Una teenager alla Casa Bianca) o comunque film d'azione che avevano come protagonista un Presidente/eroe positivo (Independence Day, Air Force One), è evidente come con il passare degli anni - e ovviamente le guerre in Iraq ed Afghanistan, l'11 settembre e l'ISIS - questa tendenza si sia trasformata in qualcosa di molto diverso.
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La figura del Presidente USA che era stata sublimata prima con i film già citati e poi con il capolavoro seriale di Aaron Sorkin West Wing è diventata con il tempo sempre meno rassicurante, fino a raggiungere livelli di corruzione o (simpatica) idiozia e incompetenza mai raggiunti prima. Se insomma una volta sul piccolo e sul grande schermo c'era un Presidente di cui ci si poteva innamorare o verso cui si poteva provare empatia e orgoglio e magari trarne in cambio speranza, ora tutto questo non è più possibile. Non con quello che ci hanno mostrato per anni, e continuano a mostrarci ancora oggi, i vari 24 (soprattutto nelle ultime stagioni), House of Cards, Scandal, Veep o, molto recentemente, anche serie nuove come Designated Survivor o Graves.
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Ovviamente Hollywood in questi casi non fa altro che rappresentare/anticipare le paure e gli interessi del grande pubblico e di trarne vantaggio, quindi di certo non avrebbe senso accusare gli studios o i produttori di fare "terrorismo psicologico", ma potrebbe essere quantomeno interessante farsi la domanda opposta: gli esempi di presidenti rassicuranti, positivi se non addirittura idealisti come il Jed Bartlet di Martin Sheen (West Wing), il David Palmer di Dennis Haysbert dei primi anni di 24, come la Madam President Mackenzie Allen di Geena Davis in Una donna alla Casa Bianca, non sono forse stati più utili alla causa di Obama più di qualsiasi altro tipo di propaganda o donazione? Non era meglio lasciar intravedere le possibilità, per quanto ovviamente in gran parte illusorie, dei traguardi che si vorrebbero raggiungere piuttosto che limitarsi a distruggere, ridicolizzare e spaventare?
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L'America è ancora il più grande Paese del mondo?
Poche ore fa Aaron Sorkin, sceneggiatore Premio Oscar ma in periodo elettorale spesso chiamato in causa negli USA anche dalla politica proprio per il suo incredibile lavoro su West Wing, ha pubblicato una bellissima lettera su Vanity Fair indirizzata a sua moglie e a sua figlia e, indirettamente, a tutti i giovani americani che in queste ore sono delusi, spaventati e non si sentono rappresentati dal risultato di questa elezione (d'altronde i numeri dei millennials chiamati al voto parlano chiarissimo). Una lettera che è un grande gesto d'amore e ci ricorda ancora una volta le sue grandi doti. Eppure nemmeno un anno fa lo stesso Sorkin raccontava del fatto che non avesse mai voluto far vedere a sua figlia adolescente molte cose che aveva scritto. Tra cui appunto West Wing o The Newsroom. Ma sicuramente le avrà parlato in lungo e in largo di Trump e del pericolo che (secondo lui) rappresenta per gli USA e per il mondo.
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Ma se sei Aaron Sorkin e hai scritto alcuni dei più bei momenti non solo della storia della televisione ma anche della politica USA - perché non ha importanza che quei momenti siano veri o meno, l'esempio del suo presidente Jed Bartlet e del suo staff sono comunque a disposizione di tutti - perché non partire da quello? Perché non prendere quello splendido monologo di Jeff Daniels nel primo episodio di The Newsroom, quello dell' "America is NOT the greatest country in the world anymore" di cui tutti si sono appropriati in qualche modo negli ultimi anni, e da lì ripartire per cominciare un dialogo costruttivo? Perché non partire da quel presidente fittizio, ma così amato, interpretato da Martin Sheen - un presidente a cui paradossalmente tutti i media continuano a far riferimento in periodo di elezioni ormai da un decennio - per proporre un nuovo modello positivo? Un qualcosa di diverso a cui aspirare?
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Let Bartlet Be Bartlet
Il motivo per cui in un periodo di revival di serie storiche e di successo ancora non c'è mai stato un annuncio su West Wing (che, ricordiamolo, fino a due mesi fa e all'ennesimo trionfo del Il trono di spade, era la serie più premiata della storia della TV) dipende sicuramente anche dalla difficoltà di trovare accordi con i network, con gli attori, con lo stesso Sorkin che è giustamente richiestissimo e impegnatissimo. Ma i motivi reali risiedono probabilmente altrove, nella paura probabilmente di non avere un vero e proprio pubblico per uno show che sia ottimista, ricco di speranza e che voglia raccontare un modo ideale e non reale.
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Che però, dal nostro punto di vista, è esattamente quello che sarebbe necessario per la TV, gli USA e il mondo di oggi. Perché disastri, apocalissi, mondi distopici e dittatoriali ne abbiamo visti fin troppi in questi anni e speriamo tutti che possano rimanere solo sugli schermi, ma adesso c'è bisogno di pensare oltre, di tornare a vedere la politica come un'attività che può costruire qualcosa di positivo e non solo distruggere. Frank Underwood ci piace, ci ha appassionato e ci ha fatto anche riflettere, ma adesso c'è bisogno di qualcuno che ci ricordi che non è l'unica alternativa. C'è bisogno di qualcuno che, anche solo sullo schermo, dica frasi tipo: "Sono il presidente degli Stati Uniti, non il presidente di quelli che sono d'accordo con me." O "Hai un amico particolarmente caro? È più intelligente di te? Gli affideresti la tua vita? Hai il tuo capo di gabinetto." O "Se qualcuno pensa che questi crimini avrebbero potuto essere evitati se fossero state armate anche le vittime, voglio solo ricordargli che ieri sera hanno sparato al presidente degli Stati Uniti mentre era circondato dalle migliori e meglio addestrate guardie armate della storia del mondo."
E non perché siano necessariamente vere o realizzabili, ma perché semplicemente abbiamo bisogno di crederci.