È già una lunga storia trionfale quella di Elle, ultima regia di Paul Verhoeven e film dalla lunga gestazione che ha trovato la sua perfetta e impavida eroina in Isabelle Huppert. Presentato a Cannes in competizione lo scorso anno, il film ha esaltato e divertito stampa e pubblico, ed è stato tra i protagonisti della stagione degli Awards 2016-2016, vincendo due Golden Globe e proiettando la Huppert a un passo dall'Oscar.
Il 23 marzo il film arriva finalmente nelle sale italiane e ad accompagnarlo alla presentazione romana c'è il suo illustre e incontenibile timoniere, che si è divertito un mondo a chiacchierare con la stampa e a sviscerare ogni aspetto del suo film (ma noi abbiamo cercato di contenere gli spoiler, promesso!). Un film talmente brillante, ardito e convincente che qui qualcuno ha azzardato addirittura l'ipotesi di rivalutare alcuni degli episodi più controversi della sua carriera, come Showgirls. E a rileggere quello che ci ha detto Verhoeven, la voglia di perdonargli ogni passo falso per abbracciare appieno la sua personalità stravagante ed eclettica e la sua arte senza compromessi è venuta francamente anche a noi.
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Fortuna che c'è Isabelle
Mr. Verhoeven, lei ha raccontato che il film si sarebbe dovuto fare in America ma non è stata trovata un'attrice di alto profilo che volesse interpretare Michèle. Com'è andata?
Paul Verhoeven: Quando mi è stato proposto di adattare il romanzo Oh... di Philippe Djian dal produttore Saïd Ben Saïd Isabelle Huppert si era già dichiarata interessata a fare il film. Però volevamo farlo in America, anche perché io vivo a Los Angeles, e così affidammo la stesura della sceneggiatura a David Birke e iniziamo a contattare agenti e studios. Ma passavano i mesi e arrivavano un no dopo l'altro. Alla fine parlai con Saïd e lui mi disse "Dopotutto il libro di Djian è francese. Se lo girassimo in Francia?". Così, con grande umiltà, siamo tornati da Isabelle e le abbiamo chiesto se era ancora interessata al ruolo. E per fortuna ha detto di sì. Non ci fu bisogno di grandi interventi, a parte tradurre lo script in francese. Isabelle è un'attrice audace, non le interessa cercare la simpatia degli spettatori. E non interessa neanche a me.
E poi l'Academy non ha nemmeno candidato Elle all'Oscar per il miglior film straniero, nonostante il Golden Globe e la nomination a Isabelle.
No, credo che il tema fosse un po' troppo forte, e che sia stata una scelta politica quella di escluderlo dalla shortlist. Non è esattamente politically correct.
In effetti l'argomento è pesante e attualissimo, si è parlato più che mai di violenza sulle donne in queste settimane; eppure c'è tanta ironia nel film. Più di quanta ce ne sia nel romanzo di Djian.
Sì, io e lo sceneggiatore abbiamo voluto amplificare l'ironia rispetto al romanzo. Volevo fare un film che avesse diverse anime perché lo richiedeva la storia: c'è l'aggressione, c'è la violenza, ma c'è anche altro, tutto il contesto sociale che circonda la protagonista, le sue relazioni, che per me erano altrettanto importanti. Non volevo fare un thriller, non volevo fare un film di genere: c'è una tendenza troppo diffusa a fare film formulaici, ed Elle era un'occasione per trascendere il genere, raccontare semplicemente una persona particolare e le sue relazioni: certo il thriller c'è, c'è l'ironia, e anche elementi di noir. Ma volevo fare un film non incasellabile. La vita non ha genere, è imprevedibile. La mattina leggi qualcosa che di angoscia e ti intristisce, la sera ridi con gli amici. A Michèle succedono così orribili, ma la vita è così, questo volevo rappresentare.
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Michèle e le altre
I suoi ultimi film hanno delle protagoniste femminili che vivono situazioni decisamente estreme. Le piacciono le donne un po' borderline?
Non credo di essere attratto dalle donne tormentate per principio. Michèle ha reazioni diverse da quelle che avrebbero la maggior parte delle persone a quello che le accade, ma per il resto è una donna normale, equilibrata, efficiente. La protagonista di Black Book è una ragazza ebrea normalissima che fa quello che deve fare per salvarsi dai nazisti.
Michèle in un certo senso è una sopravvissuta: suo padre è in carcere per avere ucciso 27 persone quando lei era bambina. Il film non elabora il legame tra questo trauma e la personalità di Michèle, ma certamente lei non è una vittima e rifiuta di lasciarsi considerare tale. Quando è a tavola con gli amici il giorno dopo l'aggressione è criptica, sdegnosa: "Credo di essere stata violentata". E quando loro mostrano preoccupazione e compassione lei non vuole saperne. È una donna che ha carattere, non una squilibrata.
La relazione che intreccia più avanti nel film... è Gesù che ci ha detto "ama il tuo nemico, non il tuo vicino".
Non è frequente nel cinema mainstream vedere personaggi femminili così complessi, e così padroni di sé. Michèle è una donna che ha potere, e non è la prima che lei racconta. Qui però c'è questo rifiuto programmatico del ruolo di vittima: cosa c'è all'origine di questo atteggiamento?
Credo sia giusto dire che Michèle non l'ho creata io. Era tutto nel romanzo di Djian. Certo abbiamo lavorato sugli aspetti visivi, e cambiato e aggiunto alcuni elementi, ma il carattere di questa donna, il suo rifiuto di essere vittima, che non permette neanche ai suoi amici di compatirla, lo dobbiamo a Philippe Djian. È proprio questa personalità che mi ha sedotto quando ho letto il libro: la possibilità che una persona dopo un trauma come quello che Michèle subisce da bambina si costruisca un carattere che le permette di affrontare con forza e freddezza le condizioni più drammatiche. Qualcosa di completamente diverso da quello che accade di norma.
Lei si rifiuta di subire e lo vediamo dai primi istanti. Dopo lo stupro la vediamo calma: rassetta la cucina, butta via i vestiti che aveva addosso per non vederli più, si butta nella vasca da bagno e cancella le tracce di sangue nella schiuma. E poi ordina del sushi. Certo, la parola scritta ha un impatto diverso rispetto all'immagine cinematografica, il cinema rende tutto più forte e intenso ed eclatante. In ogni caso è affascinante che pensi "no, quello che è successo non mi farà cambiare. Mi rifiuto di essere vittimizzata." È stato un vero piacere lavorare a questo personaggio in compagnia di Isabelle Huppert.
Molti in effetti hanno parlato di Elle come un film femminista. Le donne sono vincenti, anche la fidanzata del figlio è una tosta, che si fa rispettare. Gli uomini non ne escono altrettanto bene.
Indubbiamente. E c'è anche il suggerimento della relazione lesbica, con le donne che si lasciano gli uomini alle spalle. Ma devo dare atto a Djian che viene dal romanzo. Per buona parte, ripeto, i personaggi sono i suoi.
Michèle è una donna amorale, che si comporta in maniera antiborghese. Come si sono evolute le sue protagoniste dalla Catherine Tramell di Basic Instinct?
Potete chiamarla amorale se volete, ma non c'è mai stata la morale nei miei film. La gente d'altra parte non è morale, la gente è adultera: la monogamia, ne sono convinto, è un ideale impossibile. Invecchiando mi rendo conto di quanto le donne mi interessino più degli uomini. Dipende anche dall'esperienza personale, dal ruolo che ha avuto ad esempio mia moglie nella mia carriera, e le difficoltà che abbiamo vissuto e superato insieme. Le ammiro, le donne. Anche il mio prossimo film avrà come protagoniste due donne. Due religiose, per la precisione, e sarà ambientato in epoca medievale in un monastero di Peschia, vicino a Firenze. È tratto da Immodest Acts, un saggio di Judith Brown, che è una studiosa della storia della sessualità, e il titolo di lavorazione è Blessed Virgin.
Può raccontarci qualcosa della scena più chiacchierata del suo cinema? Lo immaginava l'effetto che avrebbe avuto sull'immaginario collettivo la "scavallata" di gambe di Sharon Stone?
Veramente non me l'aspettavo affatto. Girammo quella scena a fine giornata, tutti gli altri attori erano andati via e sul set eravamo rimasti solo io, Sharon e il direttore della fotografia. Girammo quella sequenza quasi per gioco, di certo senza la minima intenzione di andare a scardinare un tabù. Me ne dimenticai completamentamente fino a che non la vidi montata nel film. Il mio montatore - che è un uomo pacato, cristiano praticante - mi disse "Tu l'hai girato, io l'ho messo nel film." L'idea derivava da un'esperienza personale, degli anni del college. C'era una ragazza che vedevamo a incontri e feste e che faceva costantemente quello che fa Catherine in quella scena. Una volta un mio amico le chiese se sapeva che vedevamo tutto quando accavallava e scavallava le gambe, e lei rispose "Certo, è per questo che non porto le mutande."
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Brave New World
Nel romanzo Michèle è il capo di un'agenzia legata al mondo del cinema e della letteratura; come è avvenuto il passaggio all'industria dei videogiochi? C'è qualche legame con suoi progetti precedenti come Starship Troopers o Robocop?
Io non lo conosco il mondo dei videogiochi, non ho mai giocato e non mi interessa. So che ci sono tanti studi sul fatto che istigherebbero alla violenza, ma non ne so granché. Qui ero preoccupato per l'elemento visuale: nella sfera lavorativa avremmo avuto Michèle e il suo team seduti a un tavolo a parlare di scritti e sceneggiature. Non funzionava, era troppo astratto e noioso. Così una sera a cena fuori con la mia famiglia per puro caso parlai di questa cosa chiedendomi a che cosa avrei potuto ricorrere per migliorare l'impatto visivo del film. Mia figlia maggiore, che è un'artista, suggerì l'industria videoludica e io proposi l'idea a David Birke, per scoprire che è appassionatissimo di videogiochi! Ci siamo appoggiati a una compagnia francese però, perché realizzare sequenze di videogiochi come quelle che si vedono nel film costa un'enormità e non potevamo realizzarne apposta per il film.
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Lei ha lavorato in America per anni e vive a LA, ma per gli ultimi due film è tornato in Europa. È perché qui c'è più libertà?
Sì. È evidente che c'è più libertà, anche perché non so se avete notato come vanno le cose negli Stati Uniti ultimamente, e anche prima dell'elezione di Trump abbiamo cercato invano per due mesi di fare Elle in USA. Di sicuro non se ne farà un remake americano per i prossimi quattro - o forse otto - anni.
Cosa dobbiamo aspettarci secondo lei dal cinema USA del prossimo futuro?
Sicuramente più satira, ma temo che saranno realizzati anche film volti a giustificare un conflitto con la Corea del Nord così come è stato con l'Iraq. Spero che Hollywood continui a essere critica come sembra essere ora, spero che ci sia una resistenza a cui poter dare il mio contributo, ma il successo recente di un film come La La Land non mi sembra un buon segno in questo senso, perché esprime la tendenza all'ottimismo e alla nostalgia.
Si può parlare di un senso di giustizia bizzarro ed estremo nel suo cinema? Anche qui il modo in cui si risolve il rapporto con il padre, che Michèle in un certo senso "uccide".
Sì, Michèle dice al padre morto "Ti ho ucciso io!", ma non vuol dire che ne avesse l'intenzione. Si decide di andarlo a trovare dopo aver dichiarato per anni che non l'avrebbe mai fatto per venire incontro all'ultimo desiderio della madre. Non pensava certo che si sarebbe suicidato per la paura di affrontarla. Lei è perplessa quando il direttore del carcere le dice che suo padre è morto e viene a sapere che è successo dopo l'annuncio della sua visita. Conclude in maniera logica che è stata la sua decisione di andare a trovarlo a indurlo ad ammazzarsi, ma non c'era l'intenzione di compiere un atto di giustizia. Anche con il suo stupratore, non c'è una volontà precisa di giustizia o vendetta. C'è un vero e proprio gioco erotico che si conclude come sappiamo, ma non per volontà di Michèle: se c'è giustizia, è giustizia per caso. Non c'è nessuno che cerca la giustizia, tanto meno io. Io sono un osservatore, non un moralizzatore.