Quando Jane Fonda, aprendo l'ultima busta della notte degli Oscar, ha annunciato Parasite come miglior film del 2019, l'esultanza dei presenti al Dolby Theatre è andata ben oltre gli applausi di rito: quello esploso a fine serata è stato un entusiasmo incontenibile, tanto da costringere addirittura la regia dello show a prolungare il discorso dei vincitori oltre il minutaggio d'ordinanza. Non si è trattato di un'autentica sorpresa (le altre tre statuette per Bong Joon-ho avevano già anticipato l'esito della gara), eppure è stato il miglior finale possibile per una delle awards season più imprevedibili degli ultimi decenni: una awards season chiusa con la consapevolezza che, da quest'anno, qualcosa nell'Academy è davvero cambiato.
Oscar e film stranieri: perché proprio Parasite?
Innanzitutto, partiamo dalla domanda di base: perché proprio Parasite? L'opera di Bong Joon-ho ha segnato vari record: è stata la prima pellicola coreana a competere agli Oscar, la seconda pellicola (consecutiva!) in lingua non inglese a ricevere il premio per la miglior regia e la prima in assoluto ad aver vinto la statuetta come miglior film. E le ragioni di un tale primato non possono essere ricondotte unicamente al suo valore artistico. Vero, Parasite è un capolavoro, ma tantissimi altri capolavori provenienti da vari angoli del mondo hanno tentato la medesima impresa nei novantadue anni di esistenza dell'Academy; ricevendo talvolta nomination e premi, ma senza mai riuscire a piazzarsi sul gradino principale, impresa che fino a poco tempo fa appariva ancora proibitiva.
Sicuramente, al trionfo di Parasite agli Oscar 2020 ha contribuito il suo successo commerciale: a livello mondiale (l'incasso complessivo veleggia verso i centottanta milioni di dollari), ma soprattutto presso il pubblico americano, con trentasei milioni di dollari e quattro milioni di spettatori (a cui andrà aggiunto un massiccio effetto-Oscar). Ma ancora non basta: circa vent'anni fa, risultati molto più alti erano stati registrati da titoli come La vita è bella di Roberto Benigni e La tigre e il dragone di Ang Lee. A questi fattori, dunque, ne vanno sommati almeno un altro paio: il fatto che Parasite abbia dimostrato di possedere qualcosa di diverso rispetto ad altri "film stranieri" pur acclamatissimi e l'ipotesi che forse, nel frattempo, anche gli Oscar siano mutati.
Il caso Parasite: dalla Corea agli Oscar, analisi di un film epocale
Le ragioni di un successo
Passiamo dunque all'opera in sé. Un'opera profondamente calata nella realtà sociale della Corea del Sud e che rispecchia per molteplici aspetti la sensibilità artistica di Bong Joon-ho, un regista già affermatosi in patria (e tra i cinefili) con Memorie di un assassino - Memories of Murder e The Host, ma che aveva fatto fatica a conquistare le platee internazionali con i suoi cimenti in lingua inglese, a dispetto dei numerosi divi inclusi nel cast di entrambi i film: Snowpiercer, penalizzato negli USA da un certo Harvey Weinstein, e Okja, prodotto nel 2017 per Netflix. Parasite invece, lanciato sull'eco di una Palma d'Oro assegnata all'unanimità, ha fatto breccia in maniera trasversale, rivelandosi in grado di rispecchiare contraddizioni, dissidi e barriere di classe applicabili non solo alla Corea, ma a quasi tutto il resto del pianeta.
Se l'universalità dei temi al cuore del racconto (a questo proposito, vi rimandiamo alla nostra recensione di Parasite) costituisce senza dubbio un ingrediente della sua popolarità, un elemento ulteriore può essere rintracciato nel linguaggio: con la sua commistione spesso imprevedibile di suspense e humor nero, di dramma, commedia, thriller e pulp, amalgamati magnificamente, Parasite è un film capace di 'parlare' potenzialmente - seppur magari a livelli differenti - a ogni categoria di spettatori. Una caratteristica che al di là dei festival, e nell'ottica di un premio tanto mainstream come gli Oscar, gli ha attribuito un netto vantaggio rispetto a titoli quali Amour o Roma, dotati di un'impronta più marcatamente 'autoriale'.
Parasite: il fascino discreto della borghesia nel capolavoro di Bong Joon-ho
Un nuovo capitolo nella storia dell'Academy?
L'ultimo punto, però, non riguarda tanto Parasite, quanto l'Academy in sé: come sta cambiando quest'organizzazione antichissima, che oggi conta un numero di membri compreso fra le otto e le novemila persone, molte delle quali aggiunte nell'ultimo lustro con il preciso scopo di aumentare la percentuale di donne e di stranieri? Difficile a dirsi: da sempre legata più alla tradizione che non alla modernità, non più tardi dell'anno scorso l'Academy ha visto prevalere le proprie tendenze più 'conservatrici' quando ha consegnato il suo massimo premio a Green Book di Peter Farrelly, attirandosi contro una valanga di contestazioni e di strali ironici da parte di critici, appassionati e perfino esponenti di primo piano dell'industria (incluso un furibondo Spike Lee).
È anche vero, tuttavia, che sempre l'anno scorso non sono mancati segnali di cambiamento: le dieci nomination per Roma di Alfonso Cuarón, opera sofisticata e agli antipodi delle convenzioni del cinema hollywoodiano, nonché primo film in lingua non inglese ad aggiudicarsi l'Oscar per la regia (in una cinquina che comprendeva pure il polacco Pawel Pawlikowski). Nati nel 1929 per celebrare e promuovere le produzioni dei grandi studios, a oltre nove decenni di distanza, in una società sempre più globalizzata, gli Academy Award stanno mostrando una considerazione inedita nei confronti di culture e tipologie di cinema lontanissime da Hollywood; e se tale considerazione può incentivare l'interesse e la visibilità per i grandi film, da qualunque paese essi provengano e in qualunque lingua siano recitati, basta e avanza per darci motivo di festeggiare le quattro statuette di Parasite.