Ombre dal passato
Era difficile, dopo un successo mondiale come Halloween - La Notte delle Streghe, realizzare un' opera all' altezza del predecessore. L'allora ventinovenne John Carpenter ha a disposizione un budget più elevato: un milione di dollari. Siamo sempre nel territorio dei film a basso costo, ma se pensiamo che per le gesta di Michael Myers erano stati spesi appena trecentomila dollari, ci rendiamo conto di trovarci di fronte al primo vero salto di qualità del giovane regista.
Carpenter è un uomo a cui piace stupire il pubblico e disorientarlo con scelte che possono apparire anche discutibili. La maggior parte dei registi avrebbe girato un film-fotocopia. Lui no. Dopo il serial killer con la maschera bianca (non un semplice assassino, ma il "Male" assoluto che si incarna), ecco una tradizionale storia di fantasmi. Se in Halloween, malgrado i vertici di sublime terrore raggiunti, il sangue sparso era poco, anche per gli standard dell' epoca, Fog ne mostra ancora di meno. E' un film tutto giocato sulle atmosfere gotiche, cupe, decadenti. Ombre nella nebbia, appunto, che emergono all' improvviso, portando con loro il retaggio di un oscuro passato, cui è impossibile sfuggire.
Io trovo che il modo più nobile e più efficace che sia mai stato escogitato per fare paura, per quanto riguarda il pubblico, è non mostrare troppo. Soprattutto, non sforzarsi di essere chiari. In questa frase si può leggere gran parte della filmografia di Carpenter, in primis le motivazioni e la filosofia che stanno alla base di questo film.
Perché, è quasi inutile dirlo, Fog centra in pieno l' obiettivo. E' un film che fa paura, una paura fredda e affilata, che riesce ad avvolgere lo spettatore senza tramortirlo con effetti volgari o di facile presa. Inanzitutto è un film dai ritmi lenti e ipnotici. Rivederlo a distanza di anni, dopo essere abituati alle vertigini da videoclip di questo sciagurato periodo, fa uno strano, anche se piacevole effetto. Viene quasi da chiedersi: "ma allora è possibile emozionare senza montaggi frenetici da quattromila inquadrature al secondo che non permettono neanche di capire quello che sta succedendo?"
Sarà un'ottica un po' retrò, ma Carpenter è un regista volutamente fuori moda (un film come Fantasmi da Marte sta lì a dimostrarlo nel migliore dei modi), cresciuto con i classici hollywoodiani degli anni '50, innamorato di un genere tipicamente americano, qual è il western, che nel corso della sua carriera ha rielaborato e rivisitato di continuo, a partire da Distretto 13: Le brigate della morte, fino al più recente (e non del tutto riuscito) Vampires, passando, appunto, per Fog, definibile, con un po' di azzardo, un "western soprannaturale", una riproposizione del topos della cittadina assediata.
Quello che stupisce, guardando il film alla luce di una carriera fatta di alti e bassi, di clamorosi successi e di flop commerciali in grado di mandare quasi in fallimento grosse case di produzione (La Cosa è l'esempio più illustre), è la coerenza spaventosa di questo regista, autore nel senso più profondo del termine, sempre capace di inserire, in ogni opera, le sue personalissime ossessioni, i suoi tocchi da virtuoso della macchina da presa (mai fini a se stessi, ed è una gran cosa) e la sua capacità di terrorizzare con delicatezza, fuggendo la banalità, o le soluzioni scontate.
In quanto a banalità, il rischio che Carpenter corre scrivendo (insieme alla sua co - sceneggiatrice, nonché produttrice Debra Hill) una storia come Fog è grosso. Il film si apre con una scena che abbiamo visto - e vissuto - mille volte: un marinaio racconta a un gruppo di bambini riuniti accanto a un falò la storia del veliero naufragato su quella costa cento anni prima. C' era la nebbia, quella notte, ci informa subito il marinaio, la nave si era andata a infrangere contro gli scogli, perché ingannata dalla luce di un grosso fuoco. Da quel giorno, la nebbia non si è più ripresentata ad Antonio Bay, ma si dice che quando tornerà, porterà con sé le anime dei morti nel naufragio, in cerca di vendetta.
Niente di più scontato, anche gli spettatori del 1980 dovettero capire di trovarsi in un territorio familiare, già archetipico più di vent'anni fa. Eppure Carpenter va avanti senza problemi, sicuro di riuscire nel suo intento: spaventare senza sangue in un periodo in cui il corpo e le sue deformazioni strazianti erano il vero fulcro del cinema della paura. Ricordiamo, di sfuggita, che La notte dei morti viventi, prima vera incursione nell' orrore fisico della decomposizione e della lacerazione, è del 1968, mentre i padri putativi del New Horror, L'ultima casa a sinistra di Craven e Non aprite quella porta di Hooper risalgono, rispettivamente al 1972 e al '74.
Non siamo ancora nell'epoca dello splatter furibondo (dovremo aspettare gli anni '80 inoltrati per questo), ma di sicuro i giorni dei castelli stregati, degli spettri sonnacchiosi in abiti bianchi, del terrore non ostentato, insomma, sembrano finiti. Qualsiasi creatura della notte perde credibilità di fronte a Faccia di Cuoio che si aggira sghignazzante con la sua moto sega, massacrando allegramente tutto ciò che si muove.
Lo stesso Carpenter, poco tempo dopo Fog, ci regalerà un capolavoro sui corpi trasformati, aperti, violati e fatti a pezzi (parliamo de La Cosa), ma non adesso. Stanotte è l'ora dei fantasmi, ombre che a stento si intravedono, che si manifestano facendo partire gli antifurti e rompendo i vetri delle macchine, mentre la voce calda di una speaker radiofonica annuncia il centenario della graziosa cittadina costiera.
Questi spettri si nascondo in banchi di nebbia fosforescente, sono presenze impalpabili eppure concretissime, e quando bussano alla tua porta, sei sicuro di non avere scampo. Le loro mani emergono dal biancore lattiginoso della nebbia, vera protagonista di un film che è pura forma, meccanismo implacabile che alterna una tensione a volte insostenibile, con studiatissimi momenti distensivi ( i battibecchi di Janet Leigh con la sua segretaria, oppure il corteggiamento di Adrienne Barbeau da parte del meteorologo), che riescono però a non far perdere all'opera la sua atmosfera di presagio e minaccia incombente. Carpenter conosce perfettamente il materiale e gli strumenti che ha a disposizione e Fog diventa una vera sfida ai nervi dello spettatore. I cosiddetti "BUS" (quelle entrate improvvise in campo del cattivo di turno, inventate da Tourneaur ne Il bacio della pantera) abbondano forse più che nello stesso Halloween e tutto il film si costruisce sull'attesa del prossimo "salto sulla sedia". L'efficacia di Fog sta tutta in questa sottile e profonda inquietudine, rotta dall'urlo liberatorio quando finalmente la mano del fantasma esce di scatto dalla nebbia e afferra il malcapitato di turno.
A differenza di Halloween, non c'è una netta distinzione fra bene e male. La vendetta di Kane e dei suoi spettri lebbrosi ci sembra comprensibile, se non addirittura legittima. E quando si ha il sospetto che questa vendetta non si concluderà, restiamo addirittura delusi. Delusione che dura poco, però: il passato porta con sé il suo prezzo che, ci dice Carpenter, va pagato fino in fondo. Il finale doppio (sembra tutto a posto, ma la musica sale, l'ombra dello spettro esce da un angolo, e la vendetta si compie) acquista così un senso di profonda gustizia, che lo differenzia da quello di altri horror, presenti, passati e futuri. Forse perché l'intento di Carpenter è, sì, quello di spaventare, ma tenendo sempre presente la coerenza della storia che ci sta raccontando.