Recensione Vanishing on 7th Street (2010)

Inizio d'effetto, alta tensione, poi esce fuori il lato filosofico e straordinariamente profondo di un film horror-thriller in stile Shyamalan, in cui nulla è esplicito, se non la paura, il buio e il senso di smarrimento.

Ogni cosa è non illuminata

Il buio, squarciato dal fascio di luce fredda di un proiettore all'interno di una sala cinematografica in cui tutti si divertono. Il proiezionista ha una luce legata alla fronte e traffica in cabina con pulsanti e manopole, mangia e legge muovendosi con naturalezza nel buio. Siamo in un centro commerciale affollato di Detroit, poche scene di ordinaria normalità e poi il buio, pesto e totale, che fa calare il silenzio nel centro commerciale e nella città intera. Ma non si tratta di un blackout di energia elettrica dovuto a un corto circuito o a un guasto, semplicemente il mondo è piombato in un baratro di oscurità senza ritorno che ha spento tutto: la vita, il sorriso, l'immagine esteriore delle persone e naturalmente il cinema con i suoi fotogrammi, 'la' rappresentazione per eccellenza dell'immagine. Rimangono per così dire 'in vita' solo in pochi, quelli che per un motivo o per l'altro hanno 'addosso' una luce: il proiezionista del cinema, una donna ex tossicodipendente che da pochi mesi ha avuto un bambino, un giornalista della tv nazionale, un ragazzino di colore che si è rifugiato in un bar, unico posto della città illuminato grazie ad un potente generatore. Tutto il resto viene come risucchiato nel buio, tutto ciò che non è 'illuminato' svanisce nel nulla senza lasciare traccia di sé. Il corpo svanisce di colpo ed è come se come non fosse mai esistito. A terra rimane quel che resta dell'involucro simbolico che compone la nostra immagine moderna, a lasciare il segno di una presenza futile e ormai dissolta: indumenti, oggetti, edifici vuoti, automobili ed elettrodomestici spenti. Resta da capire se c'è ancora una speranza di salvezza per il mondo oppure se l'umanità deve ricominciare il suo percorso da capo facendo tesoro degli errori commessi...


Inutile negarlo: l'energia elettrica, l'informazione, l'universo mediatico sono oggi l'unica fonte di vita, anzi, pare che siano le uniche cose che permettano al mondo di esistere. Senza questi elementi imprescindibili e fondanti della società odierna il mondo non è più in grado di 'essere'. Il blackout portato sul grande schermo da Brad Anderson non è altro che la manifestazione tangibile di come la razza umana sia arrivata ad un punto di non ritorno, sprofondata nel regno delle ombre. Cosa rimane di noi se tutto questo mondo legato all'immagine e alla comunicazione viene a mancare? Nulla.

A metà tra Fog di John Carpenter e E venne il giorno di M. Night Shyamalan, il film racconta il male senza raffigurarlo, ci racconta un 'cattivo' che non ha volto né forma ma si muove nell'aria, impalpabile e invisibile. Ci spaventa con un nemico che rende ciechi i suoi avversari e verso il quale essi rivolgono lo sguardo cercando di scrutare qualcosa che non vuole essere scrutato, venendo risucchiati per questa 'insana' irrefrenabile curiosità. Un buio, quello di Vanishing on 7th street, che inghiotte ogni vita e ogni storia senza spargere una sola goccia di sangue ma lasciando dietro di sé solo tracce di vita, un'asfissiante assenza e tante domande.

La narrazione è ridotta ai minimi termini come i personaggi, volutamente privi di spessore e spesso talmente sopra le righe da essere persino ridicoli. Tante le citazioni di un cinema ormai passato ma che ha terrorizzato intere generazioni raccontando il consumismo, le paure più ancestrali, l'alienazione dell'individuo e la paura dell'ignoto, dai morti viventi di George Romero alle 'nebbie' di Carpenter, passando per il diabolico Rosemary's Baby - nastro rosso a New York di Polanski e balzando avanti e indietro sfiorando Io sono leggenda e allo stesso modo l'espressionismo tedesco delle ombre.
Un barlume di speranza c'è ed è per i bambini e per gli animali, esseri viventi che se ne fregano dell'immagine e dell'apparire, gli unici ai quali Anderson affida la ricostruzione di un mondo che sta andando verso lo spegnimento totale.

Inizio d'effetto, alta tensione, poi viene fuori il lato filosofico e straordinariamente profondo di un film horror-thriller in pieno stile Shyamalan, in cui nulla è esplicito, se non la paura, il buio e il senso di smarrimento. Un thriller low-budget che solo apparentemente perde il filo durante il racconto ma che in realtà è costruito su un'idea dannatamente affascinante e realizzato con uno stile sporco tipico degli horror anni '70-'80 che unito all'innegabile talento visivo del regista regala un intrattenimento imperdibile, non senza difetti di forma, dedicato a chi prova a guardare un po' più lontano dei venti metri che separano gli occhi dal grande schermo cinematografico.

Movieplayer.it

3.0/5