Neorealismo e neorealismi

Il neorealismo si manifestò, nelle sue opere maggiori, nella qualità di un nuovo modo di intendere la comunicazione cinematografica, che facesse piazza pulita delle convenzioni che avevano dominato, per un ventennio, la produzione filmica dell'epoca fascista.

Il neorealismo si manifestò, nelle sue opere maggiori, nella qualità di un nuovo modo di intendere la comunicazione cinematografica, che facesse piazza pulita delle convenzioni che avevano dominato, per un ventennio, la produzione filmica dell'epoca fascista. Schematizzando, si può dire che la poetica del neorealismo nacque dalla Resistenza culturale e politica al regime mussoliniano e, comunque, dal rifiuto di alcune tematiche che erano state proprie della propaganda della dittatura. Nel dettaglio, agli albori della poetica neorealista, si denunciavano aspramente, con l'esercizio della scrittura critica su alcune riviste specializzate, l'ipocrisia del ritratto della perfetta e composta famiglia borghese, la retorica della guerra e della conquista coloniale e la magniloquente enfasi con cui si insisteva sul concetto di patria, tutti temi che, a detta degli intellettuali che all'inizio degli anni Quaranta cominciavano ad occuparsi di cinema, non trovavano corrispondenza nella società dell'epoca; anche perché, nel frattempo, quest'ultima, immersa nella fase di crisi acuta che avrebbe portato alla caduta del fascismo, stava evolvendo aprendosi a esperienze di libertà, verità e ribellione. Così, quelli che sono stati definiti come i primi film neorealisti cominciarono a disegnare una società diversa, ove la famiglia divenne ben presto luogo di conflitti non più componibili, la guerra perse l'aurea magica dell'avventura e la Resistenza apparve come la legittima aspirazione di un popolo a recuperare la libertà perduta; le immagini cominciarono a uscire, per così dire, dagli spazi ristretti della magione borghese, per affrontare la strada e la polvere, la provincia profonda e la città dilaniata dalla guerra. Insomma, un paesaggio finalmente riscoperto e restituito, pian piano, alla coscienza nazionale. Collateralmente alla produzione delle prime opere, sorse un vasto movimento di pensiero estetico e poetico che si raccolse, in qualche modo, attorno alla figura di Cesare Zavatttini, scrittore e sceneggiatore di alcuni tra i capolavori neorealisti, il quale formulò la teoria del pedinamento, in virtù della quale si sosteneva che il cinema potesse diventare specchio della realtà solo a patto che affondasse l'occhio delle sue cineprese nel bel mezzo dei problemi concreti della popolazione e, in tal senso, seguisse i personaggi, non più come eroi ma come uomini dalla vita comune. La cinepresa doveva diventare una sorta di segugio, abile a cogliere ogni piccola sfumatura, anche quella in apparenza più insignificante, tale, però, da restituire, d'acchito, il senso di un disagio, d'una vita o, meglio ancora, dei conflitti sociali e delle speranze che animavano la collettività postbellica.

Per anni, si è pensato che il neorealismo fosse stato animato da una sorta di assoluta unità d'intenti e da una visione del mondo codificata e comune; si sono volute vedere, nella sua esperienza, le peculiarità d'una corrente artistica univoca, volta a diffondere, sugli schermi di tutto il mondo, un messaggio di adesione alla realtà e di profonda empatia umana.

Si leggano, però, le seguenti dichiarazioni.
«Sono un regista di film, non un esteta, e non credo che saprei indicare con assoluta precisione che cosa sia il realismo. Posso dire, però, come io lo sento, qual è l'idea che me ne sono fatta. Forse qualcuno potrebbe dire meglio di me. Una maggiore curiosità per gli individui. Un bisogno, che è proprio dell'uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell'interesse, tipicamente contemporaneo, per i risultati statistici e scientifici. Una sincera necessità, anche, di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario. Una coscienza di ottenere lo straordinario con la ricerca. Un desiderio, infine, di chiarire se stessi e di non ignorare la realtà, qualunque essa sia. Ecco perché, nei miei film, ho cercato di raggiungere l'intelligenza delle cose, dando loro il valore che hanno: assunto non facile, anzi ambizioso e tutt'altro che lieve, perché dare il vero valore a una qualsiasi cosa significa averne appreso il senso autentico e universale. Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostituita, si raggiunge l'espressione. Oggetto vivo del film realistico è il mondo, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi precostituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell'anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi. È, in breve, il film che pone e si pone dei problemi». Sono parole di Roberto Rossellini, regista di Germania anno zero, rilasciate a Bianco e Nero nel 1952.
«Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia? La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d'animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo. Il quale non può essere, a parer mio, un semplice documento». Parole di Vittorio De Sica, autore di Ladri di biciclette, rilasciate a Cinema Nuovo nell'agosto del 1953.
«Io parlo più di realismo che di neorealismo. Noi dobbiamo porci in una attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita: in un atteggiamento, insomma, che ci consenta di vedere con occhio limpido, critico, la società così come è oggi, e raccontare fatti che di questa società sono parte: neorealismo fu un termine inventato allora, perché uscivamo da quel cinema che sai, e avevamo bisogno di novità. Ma abbiamo trattato i temi che ci si consentiva di trattare da quell'angolo visuale che è stato sempre tipico di un artista realista». Parole di Luchino Visconti, regista di Rocco e i suoi fratelli, rilasciate a Mondo Nuovo nel febbraio del 1960.

Al di là di certe indubbie similitudini, è chiaro che i tre maggiori autori neorealisti avevano, rispetto alla loro attività, idee e convinzioni molto diverse. Rossellini parla di un «senso autentico e universale», del mondo come oggetto del film neorealistico; la sua sembra una curiosità da scienziato, da entomologo dei fenomeni, e la sua attenzione è per la realtà che nasce da sé e per i «più sottili fili dell'anima», a ribadire un atteggiamento omnicomprensivo, scevro, però, da qualsivoglia sovrastruttura culturale e ideologica e da qualunque ambizione militante. Già con De Sica il punto di vista cambia di un po', anche se in modo quasi impercettibile: non è necessario «pescare avventure straordinarie» perché ciò che importa è soffermarsi e dar voce alle situazioni di «reale angoscia»; in tal senso, anche se il realismo osserva, comunque, «le minime cose», l'ultima frase di De Sica sembra contenere un messaggio nemmeno troppo sibillino - il realismo «non può essere un semplice documento», cioè a dire che, in qualche misura, deve almeno provare a cambiare il mondo. Visconti, allora, si spinge ancora più avanti in questa direzione, a sostenere che il realismo deve fondarsi su un atteggiamento «limpido» e «critico», che ci consenta di capire la società - diremmo noi - in quelli che sono i suoi snodi dialettici, secondo un modo di guardare alle cose che non è più la curiosità scientifica e morale di Rossellini e nemmeno il velato desiderio d'intervento di De Sica ma, piuttosto, il distendersi critico e attento di uno sguardo marxianamente educato ad affondare l'indagine sul corpo vivo della società.
Tutto ciò per dire, allora, che, probabilmente, non è mai esistito un neorealismo come sistema globalizzante di concepire il mondo, il cinema e lo scopo del cinema ma, altresì, ogni autore ha perseguito una strada individuale e irripetibile, difficilmente riconducibile ad un progetto comune. Non il neorealismo, dunque, ma più neorealismi. D'altra parte, basta riportare alla mente uno spettro seppure assai limitato di opere e di autori, in un arco di tempo che va dal '45 al '50, per avere la conferma della nostra ipotesi.

Rossellini, in quegli anni, produce la trilogìa della guerra, composta da Roma città aperta, del '45, Paisà, del '46 e Germania anno zero, del '47. Al centro della narrazione, le vicende della Resistenza e dell'occupazione nazista o del periodo immediatamente postbellico; materia incandescente, in quegli anni, che Rossellini osserva, però, concentrando l'attenzione non tanto sulle dinamiche sociali e sulle speranze di rinnovamento di molta parte del mondo intellettuale ma sui percorsi interiori di coraggio e solidarietà, o di perversione e angoscia, dei suoi personaggi.
De Sica è già in piena temperie neorealista quando, nel '42, dirige, sommerso da mille difficoltà, I bambini ci guardano, una sorta di piccola grande opera da camera, che ribalta, senza infingimenti, le finte rappresentazioni della famiglia italiana su cui ha insistito, fino ad allora, il film di regime; in tal senso, la famiglia narrata da De Sica esibisce le miserie dell'adulterio e dell'ipocrisia come prima non era mai avvenuto. Ma sarà con Sciuscià, del '46, Ladri di biciclette, del '48, e Umberto D., del '50, che il discorso di De Sica si farà chiaro e profondo: il cinema diventa strumento di denuncia sociale, prima con il racconto della povera vita dei piccoli disastrati di Sciuscià, poi con la tragedia metropolitana della ricerca e della perdita del lavoro di Ladri di biciclette e, infine, con l'emarginazione della vecchiaia socialmente inutile di Umberto D.

Visconti, negli stessi anni, con due sole opere, fissa i parametri del cinema militante. Già con Ossessione, del '42, l'autore milanese racconta una microsocietà familiare fondata sullo sfruttamento; il tentativo d'emancipazione sarà perpetrato da due giovani amanti, privi, però, della legittimazione sociale della ratifica coniugale, anche se il loro destino fallimentare, sembra dirci l'autore, non starà tanto in questo esser fuori dagli schemi della morale costituita quanto, piuttosto, nell'errore d'una ribellione che si mostra anarchica, scomposta e prettamente individuale. Sulla scorta di tale ragionamento, 'Ntoni, il personaggio protagonista del successivo film di Visconti, La terra trema, girato ad Aci Trezza, nel '48, sulla falsariga de I Malavoglia verghiani, finirà per imparare la lezione e, dopo il fallimento d'una pluralità di tentativi andati a vuoto, capirà, alla fine del film, che l'unico modo per liberarsi dalla schiavitù sarà far corpo con tutti coloro che vivono la stessa situazione di sopraffazione: come dire, secondo un intento didattico di chiara impronta marxista, che l'unione (forse) fa la forza.