A Casal di Principe nascerà un'accademia di recitazione, a dirgerla sarà l'attore Massimiliano Gallo, si articolerà in otto corsi e porterà i nomi di Paolo e Leonardo Letizia, fratelli morti in terra di clan, il primo ucciso dalla camorra e il secondo per una tragica fatalità. E non è un caso, perché da Casal di Principe comincia anche la storia di questo film, Nato a Casal di Principe, diretto da Bruno Oliviero e in sala dal 25 aprile. Basato sul libro omonimo scritto da Amedeo Letizia, che qui è anche produttore, narra il dolore di una famiglia per la misteriosa scomparsa di un figlio. Una storia vera, quella del rapimento di Paolo Letizia alla fine degli anni '80, per il quale il fratello Amedeo non si diede mai pace continuando per anni a cercare la verità fino a raccontarla in questo film che pareggia i conti, riscatta e offre un'altra occasione di rinascita. "Una scuola in un territorio come Casal di Principe ha diversi significati - spiega Gallo che da subito ha detto sì al progetto - ognuno nel proprio piccolo deve far qualcosa per la propria società, siamo bravi a denunciare, ma meno a operare. Cercheremo di fare qualcosa che non dia un marchio, ma un'opportunità reale di lavoro e inserimento nella società".
L'accademia verrà realizzata con il 10% degli incassi del film e una base minima di 10mila euro garantiti dalle società produttrici; l'idea è che diventi un punto di riferimento per i giovani di queste terre "spesso risucchiati da dinamiche criminali". Le stesse che per tutto il film aleggiano silenziose attorno al protagonista, che oggi può dire: "È stata dura rivivere tutto questo, ma sono orgoglioso di come Bruno ha affrontato questa storia". Insieme a Donatella Finocchiaro, nel ruolo della madre dei fratelli Letizia, e Alessio Lapice, in quello di Amedeo, nel cast figurano anche alcuni dei protagonisti reali della vicenda e degli attori scelti tra oltre cinquecento ragazzi di Casal di Principe e dintorni.
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Tra realtà e finzione: dal libro al grande schermo
Da dove viene la necessità di raccontare questa storia?
Bruno Oliviero: Il film mi è stato proposto e nasce dal romanzo omonimo di Amedeo Letizia poi sceneggiato da Massimiliano Virgilio e Maurizio Braucci. La sceneggiatura però si distacca un po' dal libro, perché cerca di ricostruire molto dettagliatamente le settimane intorno al rapimento del fratello di Amedeo. Mi ha colpito subito la capacità di Massimiliano e Maurizio di tirar fuori dalla violenza la poeticità delle persone che vivono in queste terre martoriate dalle camorra subendo inconsapevolmente soprusi e storture; non sono eroi, accade semplicemente che diventino vittime e che debbano rialzarsi. È una forma particolare di resistenza ed è tutto molto politico; sentivo di poter entrare nella ricerca della verità e nella poeticità della realtà quando si presenta sotto forma di resistenza civile.
Che cosa hai provato a vedere sullo schermo qualcosa che ti riguarda così profondamente?
Amedeo Letizia: È stato difficile riaffrontare un dramma sopito per venticinque anni e dopo aver messo il demone a dormire; i miei genitori hanno visto il film solo qualche giorno fa. Ho voluto scrivere questa storia perché il rapimento è sempre un'esperienza terribile, non hai un corpo, non sai se quella persona sia viva o morta benché la coscienza ti faccia sperare che sia viva, non riesci a far pace con il dolore. Paolo rimaneva in un limbo, nessuno ne parlava più, non c'erano più foto a casa e io mi chiedevo cosa potessi fare, è stato un momento di rabbia e l'occasione per fare un'analisi di me stesso. All'epoca dei fatti avrei solo voluto vendicarlo, in quegli anni facevamo rapine senza renderci conto che fossero un crimine, ciò che nel resto del mondo non era lecito a Casal di Principe lo era; mi resi conto che così non gli avrei reso giustizia, mio fratello sarebbe stato ricordato solo per una interminabile scia di sangue e probabilmente saremmo morti tutti. Mi ha mosso invece il desiderio di riscattare mio fratello e non farlo morire due volte: prima per mano dalla camorra e poi per quella della gente che non lo ricordava più.
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Un western a Casal di Principe
È un film lontano dalla spettacolarizzazione e dalla speculazione sul dolore, al contrario trovano spazio i silenzi e l'asciuttezza. Come sei riuscito a rendere cinematograficamente tutto questo?
Bruno Oliviero: Quando cerchi la verità profonda delle persone e delle cose ti ritrovi a tirar fuori uno stile che spettacolarizza non gli aspetti finti della camorra come la prossemica esagerata di alcuni atteggiamenti, ma cosa sia vivere in terra di camorra . Ho pensato molto ai vecchi western di John Ford, che trovo molto spettacolari. Il silenzio è assedio, è capacità di rialzarsi seppur con grande fatica.
Ci puoi spiegare la scelta dell'ultima scena, che riporta lo spettatore alla dimensione del set cinematografico?
Bruno Oliviero: Ci sono due elementi molto importanti nel finale, uno dei quali non era in sceneggiatura. Mi riferisco al discorso di Alessio a bordo lago sulla camorra, che non era scritto da nessuna parte, ma è stato frutto di un'improvvisazione; la scena era bellissima e gli chiesi di improvvisare per poter cogliere meglio la realtà di quel momento, alla fine ci siamo trovati con questo semplice e ingenuo discorso su cosa sia la camorra e ci è sembrato bellissimo tenerlo. Per quanto riguarda invece il secondo elemento era importante che quando si passava ai cartelli che raccontano la vera storia di Paolo, lo spettatore avesse un piccolo shock, uscisse dalla storia romanzata e si accorgesse di una realtà più profonda, che ha a che fare ancora con l'oggi. Era quasi un invito a rendersi conto che la realtà è sempre peggiore della finzione.
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Come è stato il dialogo con le persone che avete interpretato?
Alessio Lapice: Ho affrontato i primi incontri con Bruno da attore come se dovessi prepararmi a un copione qualsiasi, quando però sono venuto a contatto con i veri personaggi della storia mi sono reso conto dell'importanza di quello che stavo per fare e ho capito che non sarebbe bastato fare semplicemente l'attore, avrei dovuto dare qualcosa di più; ho vissuto il periodo di riprese con l'ansia di deludere queste persone. Era come se mi avessero dato la chiave di uno scrigno chiuso per tantissimo tempo, il mio compito era cercare di restituirla nella maniera più intatta possibile.
Donatella Finocchiaro: È stato un lavoro attoriale strano, raro e diverso dal solito, abbiamo provato tantissimo un mese prima di girare, c'è stata una full immersion incredibile in un albergo di Castel Volturno, dove eravamo isolatissimi, sembrava di stare in Shining.
Bruno ci ha messo nelle condizioni di interpretare questa storia di cui sentivamo l'importanza e la responsabilità. La mia musa ispiratrice è stata Ernestina, la mamma di Paolo, ma nello stesso tempo dovevo trovare un personaggio credibile, ed è sempre molto difficile quando interpreti dei personaggi reali.
Dell'incontro con Ernestina mi ha stupito il suo sorriso e il fatto che avesse trovato la propria consolazione nella fede; sul set eravamo circondati dai protagonisti reali della storia, come le sorelle di Amedeo e Paolo che sono presenti in alcune scene. Averli vicini ci ha aiutato a trovare una verità.
Massimiliano Gallo: Bruno è un talento capace di leggere una storia così tragica con la sensibilità di chi non vuole entrare in una stanza ma rimane sulla soglia, e racconta il dolore con grande dignità. È un piccolo grande film che secondo le logiche ben note del cinema italiano rimarrà in sala pochissimo.
Perché hai scelto di girare su alcuni dei luoghi reali della vicenda come la casa dei genitori di Amedeo?
Bruno Oliviero: Non l'ho fatto per raggiungere un effetto, ma per avere una coerenza tra le interpretazioni e i luoghi. Anche se all'inizio mi faceva un po' paura, mi è servito per portare gli attori dentro la storia. È successo tutto durante le prove, quando ho cercato di tirar fuori da ognuno di loro un pezzo di ciascun personaggio; li ho filmati in modo quasi documentaristico e così si è creata la necessità di andare nei luoghi veri della storia, che poi si sono rivelati perfetti.