You may say that I ain't free but it don't worry me...
Nel 1975, mentre un'America ancora tramortita dal bagno di sangue in Vietnam e dallo scandalo del Watergate si prepara a festeggiare il suo glorioso bicentenario, al cinema approda un film che, più e meglio di qualunque altro, sembra rappesentare le molteplici anime di un paese avviluppato nel mito di se stesso. Nato da una sorta di "diario di viaggio" della sceneggiatrice Joan Tewkesbury e frutto di quasi due mesi di riprese nell'estate del 1974, Nashville costituisce l'indiscusso magnum opus nella carriera di Robert Altman, regista iconoclasta e irriverente la cui posizione nel panorama della New Hollywood degli anni Settanta era già stata cementificata da titoli imprescindibili quali MASH, I compari e Il lungo addio.
Ma se già i precedenti film di Altman avevano contribuito a ridefinire un intero immaginario culturale e cinematografico, pure in virtù di innovazioni stilistiche e narrative che avrebbero segnato un'epoca e influenzato generazioni di cineasti, è con Nashville che il regista di Kansas City realizza il suo capolavoro più alto e inarrivabile: un'opera-mondo che ci offre al contempo un affresco incredibilmente vivido della capitale del Tennessee, cuore pulsante della musica country & western e della relativa industria discografica, ma anche e soprattutto il canto funebre del Sogno Americano, demolito pezzo dopo pezzo fino a rivelarne appieno la natura fallace e illusoria.
Nashville, tuttavia, non si limita a proporre la radiografia di un paese ritratto in un momento cruciale della propria storia: quella di Altman è piuttosto una pellicola di spiazzante attualità, che finge di parlare dell'universo del country per raccontare invece moltissimo altro, e il cui valore risulta inalterato (se non addirittura accresciuto) perfino a quarant'anni dal suo folgorante esordio, accolto già allora dalla critica mondiale con un entusiasmo che avrebbe portato alla sua immediata canonizzazione fra le pietre miliari della settima arte. Nelle parole di una delle maggiori studiose del cinema altmaniano, Emanuela Martini, "Nashville è la sintesi del mondo impazzito come Altman lo ha immaginato negli undici film precedenti, è la messa in scena, programmatica e folclorica, del vuoto sottostante, come Altman lo immaginerà, diciotto anni e sedici film dopo, nella California quasi post-millenaristica di America oggi". E oggi, in occasione del quarantesimo anniversario dalla sua presentazione nelle sale americane, vogliamo celebrare l'intramontabile capolavoro di Robert Altman illustrandovi dieci motivi che, a detta di chi scrive, rendono Nashville semplicemente il film più bello del mondo...
1. Ventiquattro personaggi al festival del country
Ambientato nella città di Nashville nel corso di cinque giornate durante le quali ha luogo un importante festival della musica country, Nashville può essere considerato il capostipite del film corale, quasi un genere a sé stante che proprio grazie ad Altman troverà una sua ideale codificazione, destinata poi a servire da modello per numerosi altri registi (uno su tutti l'allievo prediletto di Altman, quel Paul Thomas Anderson che renderà omaggio al maestro con Boogie Nights e Magnolia). Nashville, difatti, è costruito su una struttura polifonica che segue un totale di ben ventiquattro personaggi principali, le cui esistenze si incrociano, si sfiorano o si scontrano nella capitale del Tennessee nel corso di questi cinque, fatidici giorni. Un impianto narrativo che ci offre, scena dopo scena, una prospettiva di volta in volta differente, e che Altman metterà a frutto in maniera superba anche in altri classici della sua produzione: da Un matrimonio ad America oggi, da Prêt-à-Porter a Gosford Park, fino al suo film-testamento Radio America, un'altra sinfonia in nero sulle note del country.
2. Voci e musica in corto circuito: l'overlapping
Se la narrazione corale viene associata puntualmente alla filmografia di Robert Altman, un'altra fondamentale innovazione introdotta dal regista fin dai tempi di MASH (e, prima ancora, nei suoi lavori in ambito televisivo) consiste nell'overlapping, ovvero nella sovrapposizione di voci e dialoghi. Se la tradizione recitativa classica prevedeva la perfetta distinguibilità di ogni singola battuta, il cinema di Altman tenta al contrario di catturare la realtà nella maniera più spontanea e veritiera possibile: e questo implica, necessariamente, personaggi che si parlano l'uno sopra l'altro, diverse conversazioni in contemporanea che finiscono per confondersi, e in Nashville perfino la convivenza fra dialoghi e canzoni. Un anno prima, per California Poker, Altman aveva messo a punto un originale sistema di registrazione a otto piste sonore, che verrà ampliato a sedici piste per Nashville: non solo un modo per avvicinarsi quanto più possibile alla mimesi dell'effetto di realtà, ma per riprodurre - anche a livello sonoro - quel senso di polifonia alla base del film stesso.
3. Hal Phillip Walker: il candidato invisibile
"Avete mai camminato nella valle lungo il ruscello, in solitudine e immersi nei ricordi? Il Natale per voi ha il profumo delle arance?": sono le domande che, nella loro poetica - e patetica - inconsistenza, sembrano aver fatto la fortuna del nuovo candidato in ascesa per la corsa alla Casa Bianca alle elezioni del 1976, Hal Phillip Walker. Fin dalla primissime sequenze del film, Nashville appare invasa in lungo e in largo dalla propaganda di questo misterioso candidato, nel pieno delle primarie di un fantomatico Replacement Party e con ambizioni presidenziali sostenute da una campagna impregnata di demagogia e qualunquismo. In questa raggelante panoramica della società americana, del resto, non poteva mancare un esplicito riferimento alla politica; ecco dunque Hal Phillip Walker, il candidato 'invisibile' impegnato a sfruttare il festival del country per i propri fini, rappresentato dal sorriso affabile e dall'atteggiamento mellifluo del suo braccio destro John Triplette (Michael Murphy). Nonostante sia privo di un'immagine fisica o addirittura di un volto da ritrarre sui manifesti, Walker è sempre presente: mediante gli striscioni che campeggiano in tutta la città o attraverso i programmi e gli slogan diffusi dagli altoparlanti. E Altman sottolinea più volte l'ambiguo connubio fra la politica e lo spettacolo, preludendo in tal senso all'inevitabile deriva di questo binomio: sotto le insegne di Walker si svolgerà infatti, nel quinto giorno del festival, il mega-concerto al Partenone di Nashville, destinato a sfociare in un'inaspettata tragedia...
4. È la stampa, bellezza: Opal dalla BBC
Fra le ventiquattro "voci narranti" di Nashville, si conta anche uno sguardo 'esterno': è quello di Opal, interpretata da Geraldine Chaplin, una sedicente cronista inglese della BBC, giunta nella capitale del Tennessee per produrre un reportage sul festival della musica country. Si tratta di un personaggio alieno rispetto al microcosmo cittadino, nonché di una delle figure più bizzarre e divertenti della pellicola: impegnata a vagare tra uno spazio e l'altro, infilandosi di soppiatto negli studi di registrazione o nelle feste private delle star locali, Opal è una giornalista distratta e superficiale, che inanella una catena impressionante di luoghi comuni (il "ritmo selvaggio" nei geni degli afroamericani) e di clamorose gaffe, pronta a perdersi in verbose dissertazioni sugli autobus abbandonati in un deposito ("tanti draghi gialli che mi fissano con i loro occhi vacui") ma incapace di instaurare una reale connessione con gli esseri umani che incontra sulla sua strada.
5. I'm Easy
Probabilmente nessun altro film è mai riuscito a regalarci una scena in cui romanticismo e ironia si fondessero con una tale, inestricabile complessità come quella in cui Tom Frank, membro di un terzetto folk/rock chiamato Bill, Mary & Tom, offre un'intensa performance sulle dolcissime note di I'm Easy. A comporre ed interpretare il brano, consacrato come un autentico evergreen e ricompensato con il premio Oscar per la miglior canzone originale, è il venticinquenne Keith Carradine, che nel film presta il volto a questo affascinante musicista e incallito seduttore. Durante la sua esibizione alla chitarra di I'm Easy, una malinconica dichiarazione d'amore e di fragilità ("It's not my way to love you just when no one's looking/ It's not my way to take your hand if I'm not sure/ It's not my way to let you see what's going on inside of me/ When it's a love you won't be needing you're not free"), la regia di Altman utilizza un'accurata successione di campi e controcampi per cogliere le reazioni di quattro diverse donne sedute fra il pubblico, ciascuna delle quali è convinta di essere la destinataria della canzone: Mary (Cristina Raines), partner musicale di Tom e moglie fedifraga dell'altro componente della band; due amanti occasionali dell'uomo, la giornalista Opal e la frivola L.A. Joan (Shelley Duvall), incurante della zia moribonda in un letto d'ospedale; e Linnea Reese (Lily Tomlin), premurosa madre di famiglia e riluttante oggetto del corteggiamento di Tom.
Ed è appunto sul volto di Linnea che, durante questa sequenza, si sofferma più e più volte la macchina da presa: un singolare primo piano colto a distanza, ma sufficiente alla bravissima Lily Tomlin per lasciar trapelare il conflitto interiore del suo personaggio. Pochi minuti più tardi, ritroveremo lei e Tom a letto insieme al termine di una breve notte d'amore: Linnea, consapevole del carattere effimero della loro avventura clandestina, si riveste in silenzio per tornare ad occupare il proprio posto nella cornice della perfetta famiglia borghese, mentre Tom, affetto da un patologico dongiovannismo, è ancora sotto le lenzuola mentre afferra il telefono per lanciare l'esca alla sua prossima conquista.
6. Un quarto d'ora di celebrità
Se la sequenza di I'm Easy sintetizza con formidabile efficacia la natura transitoria del desiderio e l'illusorietà dei sentimenti, la massima forma di illusione generata e auto-imposta dai personaggi di Nashville riguarda però il concetto di celebrità, analizzato nel film in tutte le sue molteplici forme. C'è la celebrità altezzosa e arrogante di Haven Hamilton (Henry Gibson), divo locale del country dall'abbigliamento a dir poco pacchiano, il cui repertorio include bislacchi inni alla patria ("We must be doin' somethin' right to last 200 years", giusto a proposito del bicentenario degli USA) e alla famiglia ("For the sake of the children we must say goodbye"), e la cui fama gli concede atteggiamenti di sprezzante classismo. C'è la celebrità invidiosa e malevola di un'altra starlette del country, Connie White (Karen Black), la quale non esita a sfruttare le disgrazie della propria rivale per assicurarsi un quarto d'ora su un palcoscenico. C'è la celebrità vagheggiata con patetica ostinazione da Albuquerque (Barbara Harris), sbandata quarantenne in fuga dal marito, e da Sueleen Gay (Gwen Welles), giovane cameriera senza talento i cui vani sogni di gloria non si infrangono neppure la sera in cui una sua disastrosa esibizione canora ad una cena elettorale deborda in uno squallido spogliarello.
E infine ci sono le vere celebrità, che si materializzano mediante le fugaci apparizioni di Elliott Gould e Julie Christie. Due grandi star hollywoodiane che tuttavia vengono apprezzate soltanto in virtù del loro status di divi, anziché per i loro film: Elliott Gould, involontario bersaglio di diverse gaffe, è bollato unicamente come l'ex marito di Barbra Streisand, mentre Julie Christie viene riconosciuta da Haven Hamilton solo per aver vinto un Oscar ("non ricordo per quale film"), mentre nel frattempo Connie White la deride per la sua acconciatura.
7. Stelle cadenti: Barbara Jean
Ma la star che costituisce il principale fulcro emotivo del racconto, quella attorno alla quale si concentra l'attenzione del maggior numero di personaggi, è Barbara Jean, l'ospite d'onore del festival di Nashville: una figura sfuggente e dai contorni tragici, ricalcata in parte su quella di Loretta Lynn e impersonata con profonda immedesimazione dall'esordiente Ronee Blakley. Per Barbara Jean, dominata dal possessivo marito/manager Barnett (Allen Garfield), la celebrità si rivela un fardello gravoso e logorante, che la induce a collassare appena sbarcata all'aeroporto e a celare dietro sorrisi e parole gentili un malessere che la sta trascinando in un vortice autodistruttivo. Nel quarto giorno del festival, dopo il ricovero in ospedale, Barbara Jean si esibisce al parco di Opryland USA, salvo interrompere la sua performance con racconti deliranti sulla propria infanzia (ancora una volta, la nostalgia per l'innocenza perduta contrapposta alla durezza della realtà): è l'altra faccia della celebrità, quella che inghiotte e fagocita i miti alimentati dall'adorazione del pubblico, schiacchiati loro malgrado negli ingranaggi dello show business.
8. "Non è Dallas, è Nashville!"
L'apice del festival del country, e allo stesso tempo la climax emotiva del film stesso, coincide con il grande spettacolo musicale organizzato dal comitato di Hal Phillip Walker al Partenone di Nashville, simulacro posticcio e kitsch delle vestigia delle antiche civiltà europee. Sul palco, sotto gli striscioni elettorali e la bandiera a stelle e strisce, Barbara Jean impugna il microfono per intonare My Idaho Home, un'altra ode all'idillio campestre e alle famiglie felici, per poi essere abbattuta da un colpo di pistola di fronte a migliaia di spettatori sgomenti. A premere il grilletto dell'arma, estratta da una custodia di violino, è Kenny Frasier (David Hayward), un personaggio misterioso il cui gesto omicida pare quasi una funesta premonizione dell'assassinio di John Lennon, cinque anni più tardi. L'uccisione di Barbara Jean è messa in scena da Altman con il rigore impeccabile di un documentarista, pronto a cogliere le reazioni a questa esplosione di follia: la fuga immediata del corteo di auto del candidato, le rassicurazioni ipocrite di Haven Hamilton, che rievocano l'incubo del delitto di John F. Kennedy ("Non è Dallas, è Nashville!"), e il muto sgomento dipinto sul volto di un giovane fan della diva, il reduce del Vietnam Glenn Kelly (Scott Glenn).
9. It Don't Worry Me
Mentre il cadavere ancora caldo di Barbara Jean viene portato via dal palco in fretta e furia, Haven Hamilton affida il microfono alla prima persona che gli capita a tiro: Albuquerque, l'aspirante starlette la quale, superato l'iniziale stupore, accoglie l'invito di Hamilton e inizia a cantare. Sulle note di It Don't Worry Me, un altro brano composto da Keith Carradine, si consuma così uno dei finali più potenti, emblematici ed agghiaccianti negli annali del cinema: in pochi istanti la folla in preda al panico si placa e, come se nulla fosse accaduto ("È solo un po' di rosso!", li rassicura Albuquerque), intona i versi della canzone. Ed ecco riecheggiare in un unico, gigantesco coro tutta l'atroce indifferenza di un popolo che non si fa scrupolo di dimenticare il sangue appena versato, o di sacrificare la propria libertà sull'altare di un fascismo subdolo e strisciante: "It don't worry me, it don't worry me/ You may say I ain't free, it don't worry me". Nel frattempo la macchina da presa si aggira fra il pubblico, fermandosi su volti anonimi pescati a caso nella moltitudine, su bambini ignari sulle spalle dei genitori, per poi allargare l'inquadratura all'intero Partenone e sollevarsi lentamente verso il cielo di Nashville.
10. Un film che non ha mai finito di dire quel che ha da dire
Come forse sarà emerso da questo articolo (più che un articolo, in realtà, una dichiarazione d'amore), è impossibile racchiudere un film come Nashville in un'unica categoria: quella di Robert Altman è un'opera che sfugge ad ogni tentativo di definizione, che trascende le convenzioni e le regole del medium cinematografico per inventarne di proprie ed inedite. In un contesto, quello della New Hollywood degli anni Settanta, imperniato proprio sulla rielaborazione di canoni e stilemi tradizionali, Nashville è una pellicola che frantuma e ridisegna i confini stessi della settima arte, con una forza anarchica e liberatoria che probabilmente non ha eguali perlomeno dai tempi di Quarto potere. Ma trascendendo dal suo conclamato valore artistico e dalla sua indiscutibile importanza storica, per il sottoscritto Nashville è innanzitutto il film che è stato in grado di offrirmi - e di offrirci - un nuovo punto di vista sul cinema, ma anche un nuovo modo di osservare la realtà. Ed è appunto il suo carattere caleidoscopico, la sua straordinaria, insondabile complessità, a rendere Nashville una pellicola che muta e si rinnova continuamente, di visione in visione: a tal punto è ricco e stratificato il capolavoro di Altman che ogni volta il nostro sguardo riesce a cogliere elementi, dettagli e sottotesti ai quali prima di allora non avevamo mai fatto caso, così come ogni volta ci si propone un nuovo personaggio da conoscere, un nuovo percorso da seguire, un nuovo mondo da esplorare. Insomma, prendendo in prestito le parole di Italo Calvino: Nashville, come ogni grande opera d'arte, è un film che non ha mai finito di dire quel che ha da dire... neppure dopo quarant'anni.
Robert Altman: da America oggi a Nashville, 10 capolavori di un regista indimenticabile