Recensione La iena (1945)

Quando i cadaveri non bastano, ci sono due mostri sacri del cinema horror a provvedere. Insieme a Robert Wise che firma, così, il suo primo vero film da regista.

Mostri sacri e cadaveri

La iena è il debutto (solista) alla regia di Robert Wise, dopo il periodo di "apprendistato" trascorso come montatore di Quarto potere e L'orgoglio degli Amberson di Orson Welles (da ricordare anche la co-regia nel 1944, insieme a Val Lewton, de Il giardino delle streghe). Ma La iena è anche il film che celebra il raro incontro tra due mostri sacri del cinema horror come Boris Karloff e Bela Lugosi, tra i quali, com'è noto, non correva buon sangue. Lugosi, infatti, aveva sempre sostenuto che Karloff non era poi quel grande attore che si diceva in giro, favorito, a suo modo di pensare, da ruoli che non brillavano certo per difficoltà interpretative. La presenza dei due nella pellicola di Wise vale già il classico prezzo del biglietto, soprattutto per il memorabile scontro che li coinvolgerà ad un certo punto della storia. Ma l'attore protagonista (ci spiace carissimo Bela!) è Boris Karloff, che ne La iena sciorina un'interpretazione di quelle che gli amanti del genere non possono snobbare. In questo l'attore inglese è aiutato (e molto) dalla solida regia di un Wise (regista spesso sottovalutato, e a torto, dalla critica) già in grado di destreggiarsi alla perfezione nelle vesti di onesto artigiano delle immagini.

Il regista dell'Indiana è abile nel ribaltare il percorso proposto dalla frase di Ippocrate nella didascalia iniziale ("Tutte le strade dell'apprendimento iniziano nel buio e finiscono nella luce"), trasponendo nel giusto modo l'ambientazione gotica del racconto di Robert Louis Stevenson. Ne La iena non ci sono infatti concessioni al facile spavento tipico degli horror degli anni Trenta e Quaranta, tutto articolato com'è in un ritratto psicologico teso e sicuramente inedito per quei tempi. Il misterioso rapporto tra il dottor MacFarlane (Henry Daniell) e il sinistro cocchiere impersonato proprio da Boris Karloff, è sorretto dalla mano di Wise, attento più alla ricostruzione realistica delle situazioni che a generiche trovate da baraccone.

Se lo schermo si riempie di espressionistiche ombre nella scena in cui avviene il trafugamento della prima salma, successivamente Wise rifugge dalle convenzioni acclarate del genere per dimostrare tutta la sua personalità (l'uccisione della cantastorie sotto il porticato è un lucido esempio del modo di creare ellissi oneste e funzionali). Fino al finale, dove una folle corsa nella tormenta si carica di connotati metafisici che, nonostante l'indubbia efficacia, sfilaccia un po' l'intricato disegno costruito fino a quel momento. La pellicola resta, comunque, un vero e proprio must per gli amanti dell'horror del periodo classico.