Recensione Palermo Shooting (2008)

In un'edizione di Cannes che ha visto brillare due pellicole del nostro Paese, bisogna dire che l'Italia non ha portato altrettanta fortuna a Wim Wenders, considerato che il suo Palermo Shooting è stato tra i film più maltrattati dell'intero Festival.

Morte a Palermo

Finn (interpretato dalla rockstar tedesca Campino) è un affermato fotografo che si divide tra arte e moda, affascinato dal digitale e dalla possibilità di poter manipolare i risultati dei suoi scatti. Una sera, dopo essere scampato miracolosamente ad un frontale con una macchina a tutta velocità, e su consiglio di un bizzarro pastore per diletto, decide di dare una svolta alla propria vita. Si reca a Palermo per girare un servizio fotografico con Milla Jovovich, e incontra una giovane restauratrice di nome Flavia (Giovanna Mezzogiorno) di cui si innamora ma è allo stesso tempo inseguito da una figura incappucciata (Dennis Hopper) che più volte tenta di ucciderlo con delle frecce.

In un'edizione di Cannes che ha visto brillare le pellicole del nostro paese, bisogna dire che l'Italia non ha portato altrettanta fortuna a Wim Wenders, considerato che il suo Palermo Shooting è stato, a ragione, tra i film più maltrattati dell'intero Festival. Dotato di una sceneggiatura a tratti risibile e non aiutato da un cast non esattamente in stato di grazia, il film del regista tedesco ha il gravissimo difetto di essere terribilmente pretenzioso (come dimostra perfettamente la dedica finale "A Ingmar e Michelangelo") e voler affrontare temi "alti" come l'ineluttabilità della vità o l'impossibilità di riconoscere ciò che è reale da ciò che è falso. Se nel secondo caso cerca di farlo in modo più o meno velato, attraverso appunto l'utilizzo della fotografia e del ritocco artificiale o dell'arte e del suo restauro, nel primo caso tira in ballo addirittura la Morte come personaggio a tutti gli effetti con tanto di dialoghi metafisici e filosofici involontariamente comici e assolutamente fuori luogo in un'opera che non è altro che un grosso pasticcio. Fa riflettere che un'opera a tratti così imbarazzante venga da un regista presente a Cannes per la sedicesima volta, è forse venuto il momento per i grandi festival di cominciare a riflettere su alcuni criteri di selezione dei film che dipendono, troppe volte, da una filmografia celebre e non dal valore dell'opera stessa: il grande nome fa sempre gola, è evidente, ma viene spontaneo chiedersi quanto possa far bene all'immagine del Festival o dello stesso Wenders inserire in concorso un film come questo.

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2.0/5