Miracolo a Librino
Comincia con un punto di vista insolito, I baci mai dati. È quello della statua di una Madonna, che sta per essere scoperta durante la cerimonia d'inaugurazione alla presenza del prete del quartiere. Siamo a Librino, estrema periferia di Catania. Un quartiere-avamposto che ha una storia inusuale: nato nel 1970 con un progetto di riqualificazione edilizia disegnato nientemeno che dall'architetto giapponese Kenzo Tange, è finito con il passare degli anni col diventare una risacca di degrado e marginalità. Proprio come la colorata architettura di Librino, la poetica di Roberta Torre vive del contrasto esasperato tra la lucentezza e la vivacità della forma e il grigiore della realtà quotidiana che racconta. Un substrato sociale in cui domina la delinquenza, la microcriminalità, la corruzione politica, l'emarginazione civile. Una condizione esistenziale vissuta con la cieca rassegnazione dell'immobilità, in cui l'unica possibilità di cambiamento è affidata a forze imperscrutabili al di là della volontà umana. È per questo che la folla che popola il film della Torre si rivolge prima alla stramba parrucchiera-fattucchiera interpretata da Piera degli Esposti e poi a Manuela, creduta una "santa" perché ha visto in sogno la Madonna.
Dopo un percorso di regia che l'aveva fatta deviare dalla cifra stilistica dei suoi esordi, Roberta Torre torna alla poetica che ha fatto propria sin dai primi cortometraggi e dall'esordio al lungometraggio con Tano da morire. Nelle sue immagini i colori barocchi siciliani si fondono con la pop-art e con la videoarte, mescolando registri e toni in un patchwork tutto mediterraneo. Ne I baci mai dati attinge direttamente all'arte povera locale, che ha come suo oggetto principale proprio la devozione verso la Madonna e i santi: dagli ex voto, ai santini, dalle edicole votive ai dipinti sui carretti siciliani. Una religiosità che nella cultura popolare spesso finisce per perdere il suo significato originario, svuotandosi di senso e deformandosi sotto le lenti del grottesco; tanto è vero che le immagini sacre sono anche una componente ineludibile anche del rituale mafioso. Attraverso il suo stile luccicante e patinato la regista utilizza il tema della visione e dello sguardo come metafora della società contemporanea, fondata sulla cultura dell'apparire (difatti anche Don Luigi, rappresentante dell'istituzione religiosa, sostiene che "l'immagine è importante"). Non è un caso che sia proprio l'incontro con una ragazza cieca a fare progressivamente "aprire gli occhi" a Manuela, fino a culminare in un finale che ha un sapore soprattutto metaforico. Un epilogo contraddittorio, proprio come le facciate dei palazzi di Librino, al tempo stesso colorate e grigie.