Un funerale, una famiglia sull'orlo di una crisi di nervi, la malattia mentale, l'accettazione, il perdono. L'ambiente è quello della media borghesia romana, fatto di elegantissime case nel cuore di Trastevere, antidepressivi, ansie incontrollate e relazioni disastrose. Il nuovo film di Roberto Capucci (di cui potrete leggere ampiamente nella recensione di Mio fratello, mia sorella) su Netflix dall'8 ottobre, si adagia nel solco di questa tradizione cinematografica, portandovi dentro la rappresentazione di un microcosmo ben consolidato nell'immaginario collettivo. Il resto è la cronaca di legami irrisolti, amori spezzati, non detti e riconciliazioni attese, che occupano confusamente lo spazio di un racconto con tanta carne al fuoco, troppa. La parte migliore è quella che la regia consegna alle interpretazioni: tutte abbastanza credibili e che rivelano un lungo lavoro di ricerca.
Una storia di conflitti familiari
Mio fratello, mia sorella è una storia di conflitti: quello tra fratelli, tra genitori e figli e fra generazioni. I personaggi che si agitano spesso in preda a sfoghi isterici, sono costretti a compiere un viaggio verso il perdono di se stessi, dell'altro e in alcuni casi dei fantasmi che se ne stanno appollaiati nel passato di ognuno. La morte del padre, illustre professore di fisica, riporta a Roma il fratello "marziano" Nick: sparito venti anni prima senza una spiegazione ripiomba nella vita della sorella Tesla, una donna chiusa nel rigore, castrata nelle emozioni se non quella dell'ansia, due figli a carico, Sebastiano e Carolina, e un ex marito che si è rifatto una vita altrove. Nik e Tesla, due personalità agli antipodi, due nomi bizzarri nati dalla mente vivace del padre in omaggio a Nikola Tesla. La presenza-assenza paterna è solo uno dei temi sullo sfondo, un'ombra ingombrante che si allunga sull'intera narrazione condizionando e determinando ogni azione dei protagonisti.
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A partire dalla convivenza forzata di fratello e sorella sotto lo stesso tetto: il testamento prevede infatti due possibilità, o vendere la casa di famiglia dove Tesla abita da sempre con i suoi figli o accettare di dividerla per un anno con Nik. Le contingenze del momento spingono verso la seconda soluzione con grande disappunto di Tesla. Nel frattempo succederà di tutto: si riapriranno ferite e ricuciranno affetti perduti, si rispolvereranno legami e soprattutto ci si ritroverà per la prima volta ad affrontare la schizofrenia di Sebastiano con una consapevolezza diversa, grazie al legame speciale che si creerà inaspettatamente tra zio e nipote.
Personaggi speculari
Il film si articola attorno a due rapporti quasi speculari: da un lato Nik e Tesla, dall'altro Carolina e Sebastiano con le figure maschili a fare da outsider. Nik è il fratello all'apparenza spiantato, ribelle, anarchico che un bel giorno ha mollato tutto per vivere di "mare, vento, barriere coralline e belle donne", alla ricerca dell'onda perfetta a bordo del suo kitesurf, 'Seba' è suo nipote, violoncellista di grande talento affetto da schizofrenia e convinto di essere il prescelto per un viaggio su Marte. Vive di cieli stellati e musica, sente le voci e parla con Kelvin, una presenza evocata durante le frequenti crisi da cui la malattia non gli lascia scampo. Nik gli porterà "un po' di luce terrestre" dopo anni di protezione compulsiva e soffocante, fatta di post-it, dosaggi e rituali volti a mantenere un equilibrio fragilissimo.
L'ansia di doverlo proteggere dal mondo esterno, sono costati a Tesla l'annullamento di se stessa, del proprio spazio emotivo e il rapporto con la figlia Carolina, che si rivolge a lei senza chiamarla "mamma" e che se l'è sempre dovuta cavare da sola. La schizofrenia è il cuore della vicenda, Roberto Capucci prova a metterla in scena senza ricorrere alle consuete materializzazioni allucinatorie della malattia e si affida al realismo: il compito di portare avanti questa visione è tutto sulle spalle del giovanissimo Francesco Cavallo, che riesce senza forzature a portare a termine la missione non semplice, seppur con qualche ingenuità. Claudia Pandolfi, Alessandro Preziosi e Ludovica Martino fanno il resto, restituendo una verità e un'autenticità non sempre scontate, strani, imperfetti e straordinariamente fragili. Peccato che il film non abbia sempre toni equilibrati, non è raro infatti che inciampi nel racconto urlato fagocitando le sfumature dei personaggi e inchiodandoli spesso a degli stereotipi.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Mio fratello, mia sorella ribadendo quanto ampiamente detto in precedenza. Il pubblico potrà apprezzare l’autenticità e il realismo con cui si affronta la schizofrenia, ma si ritroverà ben presto davanti al racconto di cortocircuiti familiari ben noti e affrontati già altrove dal cinema italiano. La cronaca di legami irrisolti, non detti e riconciliazioni attese in un ambiente ben noto allo spettatore, quello minimalista e ansiogeno di una certa borghesia romana, non aggiunge nulla di nuovo alla narrazione di un paese ancora una volta sull’orlo di una crisi di nervi.
Perché ci piace
- Il racconto autentico e realistico della schizofrenia.
- Interpretazioni credibili che rivelano un lungo lavoro di ricerca.
Cosa non va
- Non sempre i toni del racconto sono equilibrati, spesso la narrazione diventa urlata fagocitando le sfumature dei personaggi e inchiodandoli spesso a degli stereotipi.
- Troppi i temi che il film cerca di indagare.