Forse il contenuto di questa recensione di Mindhunter 2 non sorprenderà più di tanto chi già due anni fa aveva amato la serie prodotta da David Fincher e Chrlize Theron, anche perché stiamo parlando di quello che è giustamente considerato dai più uno dei migliori prodotti di Netflix in assoluto. Ma riuscire a realizzare una seconda stagione che sia migliore della precedente praticamente in ogni suo aspetto non è una cosa da tutti, anzi è forse proprio la caratteristica principale dei capolavori seriali degni di questo nome.
Soprattutto nel genere crime, poi, (non) ripetersi è difficilissimo: guardiamo ad esempio i casi di True Detective, Top of the Lake, Broadchurch, The Killing; tutte serie partite fortissimo, ricche di elementi originali, ma che hanno faticato con le stagioni successive semplicemente perché nella prima avevano già espresso al meglio le loro caratteristiche intrinseche, avevano già mostrato il loro pieno potenziale. Con Mindhunter 2 invece il discorso è molto diverso, innanzitutto perché non è mai stato un crime tradizionale, ma più che altro un affascinante studio su alcuni celebri criminali e sulle personalità dell'FBI che hanno rivoluzionato il modo di investigare ma anche di approcciare gli omicidi seriali.
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Proprio per questo motivo, non possiamo che cominciare da quello che è il momento più chiacchierato di questo Mindhunter 2, ovvero quei dieci memorabili minuti di intervista con un Charles Manson brillantemente interpretato da Damon Herriman, in cui uno dei criminali più noti al mondo sembra davvero prendere vita davanti ai nostri occhi con tutti i suoi tic e le sue "stronzate", ma anche tutto il suo innato carisma. Manson arriva nel quinto episodio in modo quasi casuale e completamente slegato da tutto il resto, perché non ha nulla a che fare con gli altri avvenimenti della stagione ma nemmeno con gli altri intervistati visto che, come noto, non ha mai ucciso personalmente nessuno. Eppure la sua presenza ha perfettamente senso in Mindhunter perché... semplicemente perché sì, perché è ovvio che degli agenti FBI che si occupano di scienze comportamentali, avendone la possibilità, vogliano incontrarlo. Per curiosità innata, per potersi vantare davanti ai propri colleghi, ma anche perché il modo di fare di Manson è fondamentale per capire che tutto quello su cui si basano i loro studi può essere semplicemente frutto di fantasia, di menzogne, di volontà di depistare e apparire più forti di quel che si è in realtà.
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In questo senso il personaggio interpretato Damon Herriman è perfetto perché riesce davvero a convincere uno dei suoi interlocutori così come almeno parte degli spettatori, riesce quindi ad essere Manson nella sua essenza, ad incarnare il Diavolo e le sue tentazioni. Ancora più importante e significativa è proprio l'intervista successiva all'assassino Tex Watson (Christopher Backus), in cui tutto quel che ci è stato appena detto da Manson viene completamente ribaltato nei fatti, ma non nella sua essenza: il texano sembra infatti voler lasciar intendere che nel profondo la sua vena omicida fosse comunque sempre presente e che non sia quindi dipendente da Charles Manson. La rivisitazione, seppur solo orale, della strage di Cielo Drive, in cui perse la vita anche l'attrice Sharon Tate, è sicuramente uno dei momenti più tesi e terribili della serie, ma altrettanto memorabile e significativa è anche l'intervista a David Berkowitz (Oliver Cooper), il serial killer conosciuto come Son of Sam. Da questo punto di vista, Mindhunter 2 è stato davvero in grado di offrirci il meglio possibile ed è difficile pensare a come avrebbero potuto proseguire se non rivoluzionando completamente il format stesso dello show.
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Gli omicidi di Atlanta come trama principale
Nella prima stagione, pur avendo affrontato di petto alcuni casi, il cuore della serie erano sempre rimaste le interviste e le dichiarazioni di coloro che ormai erano stati arrestati. Questa stagione 2 di Mindhunter ribalta questa premessa, e quindi l'intera essenza della serie creata da Joe Penhall, inserendo nella sua trama orizzontale un episodio sconvolgente della cronaca nera statunitense di quarant'anni fa conosciuto come gli omicidi di Atlanta, ovvero l'uccisione di almeno 28 tra bambini, adolescenti e adulti ad Atlanta (Georgia) tra il 1979 e il 1981. Un vero e proprio giallo che inizialmente sembra assumere una importanza marginale così come era stato per i (micro)casi della stagione precedente, ma che invece finisce con il fagocitare tutta la sua seconda parte in modo sorprendente e anche profondo. Perché se è vero che lo spettatore si ritrova coinvolto in questa caccia all'uomo, desideroso di scoprire il colpevole proprio come fosse un crime tradizionale, Mindhunter rimane comunque fedele a se stessa e continua a mostrarci come le nuove tecniche di "profilazione" abbiano contribuito a cambiare per sempre i metodi dell'FBI. Pur con mille difficoltà.
Rispetto alla stagione precedente Holden Ford e Bill Tench sembrano avere l'appoggio e l'attenzione di tutta l'FBI che vuole usare questi orribili Atlanta child murders per mostrare all'intero paese i propri metodi all'avanguardia. Ma per le strade di Atlanta, quando si ha che fare con madri che hanno perso i loro figli o politici che temono di perdere la loro poltrona, tutto questo non conta; ma anzi riuscire a vedere e pensare in modo "trasversale", andando oltre quello che può essere il pensiero comune, può rivelarsi uno svantaggio invece che un pregio. Ed è così che, con quello che un vero e proprio tocco di genio in fase di scrittura, il protagonista della serie può diventare quasi il "cattivo" della situazione, colui che con la propria testardaggine e superbia rischia di rovinare il caso invece che chiuderlo. Diventa, paradossalmente e agli occhi di molti, parte del problema e quasi complice del vero assassino, perché il suo "profiling", una volta reso pubblico, può rovinare la vita di una persona. E può anche far modo che un caso venga chiuso con troppa fretta.
Un finale amaro che apre alla stagione 3
Non è un caso che in questa seconda stagione il personaggio di Holden non abbia quasi una vita privata e che le storyline secondarie siano quindi dedicate esclusivamente ai suoi colleghi Bill Tench e Wendy Carr. Nella prima stagione Holden era stato il motore di tutto e aveva spesso anche pagato le conseguenze delle sue scelte, ora è il momento di approfondire la vita e l'impatto di queste scelte anche per gli altri personaggi: tutta la sottotrama del figlio di Bill e dell'impatto che quanto accade ha sul suo lavoro e sulla sua visione del mondo non è solo agghiacciante, ma assolutamente perfetta da un punto di vista narrativo, perché in qualche modo lo costringe a mettere in discussione tutto quello per cui lui e i suoi colleghi hanno lavorato fino a quel momento. Sicuramente di minore impatto tutto quello che riguarda il personaggio di Anna Torv, anche se lascia ben sperare per un eventuale e sempre maggiore coinvolgimento della dottoressa in future interviste e casi.
D'altronde il finale, amarissimo per tutti e tre i protagonisti, lascia intuire che, se ci sarà davvero un Mindhunter 3, molte cose probabilmente cambieranno ancora, nel bene o nel male. Potremo aspettarci un nuovo lungo e complesso caso come quello di Atlanta o un ritorno al format della prima stagione? Di sicuro sappiamo che non mancheranno nuovi inquietanti vignette dedicate a BTK, il serial killer che ci accompagna già dalla prima stagione e che - niente spoiler, è storia nota e soprattutto vera - potrebbe accompagnarci ancora a lungo. O forse il suo ruolo in Mindhunter potrebbe chiudersi così, in modo irrisolto e slegato, perché in fondo il mondo e la mente dei serial killer è oscura e misteriosa come poche cose. Ed è proprio nel riuscire a rendere questo aspetto che Mindhunter si conferma come una serie eccezionale, di quelle che ti scavano nell'anima.
Conclusioni
Arrivati in fondo a questa recensione di Mindhunter 2 avrete capito che siamo entusiasti di quanto visto e che vorremmo una terza stagione subito. La serie di Netflix conserva tutte le caratteristiche che l'avevano fatta grande già alla prima uscita, come per esempio l'ottima regia (in parte ancora ad opera di David Fincher) di grande atmosfera, ma riesce a superarsi grazie ad una scrittura brillante, ancora più sfaccettata e soprattutto attuale. Senza alcun dubbio uno dei migliori prodotti mai realizzati da Netflix.
Perché ci piace
- Regia e interpretazioni si confermano di livello altissimo, in fase di scrittura la serie addirittura si supera.
- Tutta la parte relativa ad Atlanta è un crescendo di tensione da manuale.
- Le interviste a Manson, Watson e Berkowitz sono perfette ed affascinanti come poche cose viste sullo schermo recentemente.
- La storyline di Bill e i suoi problemi familiari è un altro valore aggiunto ad una serie già perfetta di suo.
Cosa non va
- Non abbiamo ancora notizie ufficiale di una terza stagione e viene spontaneo chiedersi cosa potranno eventualmente inventarsi che sia all'altezza di quanto appena visto.