Then take me disappearin' through the smoke rings of my mind/ Down the foggy ruins of time, far past the frozen leaves
"Uno strano ragazzo chiamato Dylan, con una voce come sabbia e colla", le cui parole contenevano "una sincera vendetta": sono i versi dedicati nel 1971 da David Bowie, nella sua Song for Bob Dylan, al cantautore nato a Duluth, città costiera del Minnesota, il 24 maggio 1941. Ma chi è veramente Bob Dylan? La maschera di un giovanissimo menestrello del folk che, armato di chitarra e di armonica, intonava canzoni contro la guerra, prima che le canzoni contro la guerra diventassero di moda? Il poeta impegnato a ritrarre gli angoli più ruvidi e solitari di un paese in procinto di rinunciare una volta per tutte all'American Dream? L'icona impenetrabile e beffarda, eletta ad ennesimo portavoce di una gioventù ribelle? Il maestro giunto alla piena canonizzazione, tanto da essere insignito nel 2016 del premio Nobel per la letteratura?
Figura complessa e contraddittoria, capace di racchiudere moltitudini pur restando in qualche modo fedele a se stesso, Robert Allen Zimmerman ha segnato il ventesimo secolo come pochissimi altri artisti, in qualunque campo. Da quando, appena ventenne, mette piede a New York deciso a seguire le orme di Woody Guthrie, Bob Dylan comincia a costruirsi la strada verso il mito: perché quella voce nasale, a tratti perfino stridula, così insolita per gli standard radiofonici degli anni Sessanta, sarebbe diventata la voce in grado di esprimere i fermenti e le inquietudini di una generazione, ma anche le riflessioni - irte di simbolismi e di versi immaginifici - di un musicista che, da lì a breve, avrebbe travalicato le barriere del folk e rivoluzionato per sempre il concetto stesso di rock 'n' roll.
Il cinema, ovviamente, non poteva non lasciarsi affascinare da un personaggio tanto singolare ed enigmatico: se già nel 1967 D.A. Pennebaker aveva tentato di catturarne il mistero nel documentario Dont Look Back, in seguito sarà la volta di Todd Haynes con il biopic polifonico Io non sono qui e di Martin Scorsese, che ne ha ricostruito la parabola nel monumentale No Direction Home: Bob Dylan per poi rituffarsi nella leggenda dylaniana, tra realtà e finzione, con il recente Rolling Thunder Revue. E per immergersi in quella leggenda abbiamo scelto cinque fra i migliori album di Bob Dylan, in ordine cronologico: cinque capitoli imprescindibili di un percorso senza eguali.
1. The Freewheelin' Bob Dylan
Eppure, il percorso di Bob Dylan sarebbe comunque entrato nei libri di storia pure se si fosse fermato alla canzone che, nel maggio del 1963, apriva il suo secondo album: Blowin' in the Wind, intramontabile inno pacifista che, con la diretta semplicità della sua melodia e dei suoi versi, avrebbe animato le proteste di ogni generazione a venire. Ma l'importanza di The Freewheelin' Bob Dylan, che nella sua celeberrima copertina ci mostra un Dylan ventunenne abbracciato alla fidanzata Suze Rotolo mentre sono a spasso per il Greenwich Village, non si limita a questa commovente ballata contro la guerra: mescolando il folk e il blues, il secondo disco di Dylan prende di petto temi e istanze al cuore della controcultura americana dell'intero decennio, dal razzismo allo spettro nucleare. Da Girl from the North Country a Masters of War, dagli scenari apocalittici di A Hard Rain's a-Gonna Fall alla quieta amarezza di Don't Think Twice, It's All Right, The Freewheelin' Bob Dylan offre uno straordinario saggio del talento compositivo del suo autore.
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2. Bringing It All Back Home
Aperto dall'ironia graffiante di Subterranean Homesick Blues e chiuso dall'ermetica malinconia di It's All Over Now, Baby Blue, Bringing It All Back Home è l'album della controversa "svolta elettrica" di Bob Dylan. Pubblicato nel marzo 1965, dopo i due dischi più tipicamente folk dell'anno precedente (The Times They Are a-Changin' ed Another Side of Bob Dylan), Bringing It All Back Home è un'opera incredibilmente ambiziosa, sia dal punto di vista musicale, sia per la densità compositiva della penna di Dylan: da pezzi quali Maggie's Farm e Outlaw Blues, che sanciscono quasi una caustica dichiarazione di poetica per incrinare l'immagine del folksinger 'impegnato', all'analisi sociale ed esistenziale di Gates of Eden e It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding). Ma la vetta assoluta dell'album, la canzone destinata ad entrare nell'Olimpo dei più grandi brani mai scritti, è senz'altro Mr. Tambourine Man, che in quello stesso periodo sarebbe diventata anche il cavallo di battaglia dei Byrds: una ballata dai toni onirici in cui i versi di Dylan disegnano un memorabile affresco di solitudine.
3. Highway 61 Revisited
Un'autostrada attraverso l'America, costeggiando il Mississippi: la U.S. Route 61 che dà il titolo all'album Highway 61 Revisited diventa l'immagine-simbolo di un viaggio nell'anima di una nazione sulla soglia di un profondo cambiamento. È l'estate del 1965, e a pochi mesi di distanza da Bringing It All Back Home Bob Dylan realizza un altro capolavoro, introdotto al pubblico da Like a Rolling Stone: sei incendiari minuti di sarcastica invettiva al ritmo di una cavalcata rock, con quel "How does it feel?" ripetuto all'ascoltatore come una rabbiosa provocazione. I versi di brani come The Ballad of a Thin Man e Queen Jane Approximately dipingono ulteriori immagini di alienazione in cui si svela la frattura fra società e individuo, mentre le consuete pennellate dylaniane dedicate al racconto di un'America ai margini raggiungono una magnificenza espressiva inedita nel brano di chiusura, la fluviale Desolation Row, che nei suoi undici minuti di durata ci illustra una sorta di suggestivo romanzo corale.
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4. Blonde on Blonde
Trascorre meno di un anno da Highway 61 Revisited quando, nel giugno 1966, Bob Dylan porta a compimento la sua "trilogia elettrica" con un progetto perfino più ambizioso dei precedenti: Blonde on Blonde, un doppio LP in cui si accentua la dimensione simbolista e visionaria della vena artistica di Dylan. Se dunque a inaugurare le quattordici canzoni dell'album è la marcia farsesca di Rainy Day Women #12 & 35, a rappresentare appieno la sofisticatezza compositiva e la natura sperimentale e talvolta enigmatica di Blonde on Blonde sono soprattutto canzoni quali Visions of Johanna, Stuck Inside the Mobile with the Memphis Blues Again e la dolcissima Sad Eyed Lady of the Lowlands, posta a conclusione del disco. A fare da contraltare è invece l'incanto più 'immediato' di One of Us Must Know (Sooner or Later) e Absolutely Sweet Marie, di un trascinante instant classic come I Want You, del sapore beatlesiano di 4th Time Around e della struggente Just Like a Woman, altra perla senza tempo del canzoniere di Dylan.
5. Blood on the Tracks
È con un salto di quasi un decennio, un decennio in cui comunque la prolificità di Bob Dylan non conosce battute d'arresto, che nel 1975 incontriamo un altro fra i vertici della sua produzione, nonché uno dei suoi dischi più amati di sempre: Blood on the Tracks, un album principalmente acustico, con dieci brani che ci mostrano un approccio più intimo e 'confessionale' da parte del cantautore del Minnesota. Un approccio evidente fin dall'apertura con Tangled Up in Blue, passando per la lucida malinconia di Simple Twist of Fate e You're a Big Girl Now e lo sfogo rabbioso di Idiot Wind. La propensione narrativa di Dylan confluisce invece nella ballata folk Lily, Rosemary and the Jack of Hearts, mentre nell'ultima parte dell'album prende il sopravvento il romanticismo venato di rimpianto della splendida If You See Her, Say Hello, di Shelter from the Storm e di Buckets of Rain: un terzetto di canzoni di ineffabile e toccante dolcezza.
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