"Allora, quali erano le tue aspettative?" "Che questa serata andasse bene, che i miei figli mi amassero, e la mia vita fosse perfetta." "Questo era un po' naïf." "Io sono naïve, lo sono sempre stata. In qualche modo, è stato un dono."
Un'espressione di angosciato stupore si dipinge sul volto di Julianne Moore, inquadrata di profilo mentre apre lo sportello del frigorifero. Lo zoom della macchina da presa e l'irrompere della colonna sonora di Marcelo Zarvos, riadattata dalle musiche composte da Michel Legrand per il film Messaggero d'amore, caricano di enfasi questa breve scena, che culmina nella seguente battuta: "Mi sa che non abbiamo abbastanza hot dog!". Il dissidio fra la tensione costruita in questa manciata di secondi e la banalità del 'dramma' di Gracie Atherton costituisce, già in apertura della pellicola, un esempio emblematico della natura di May December. A prima vista, lo stridente accostamento di registri così diversi sembrerebbe far virare il film di Todd Haynes verso i territori della satira, ma tale etichetta non renderebbe giustizia alla complessità dell'opera: un'opera in cui non mancano certo le pennellate di ironia, ma il cui modus operandi consiste nel far leva sulle sfumature, sui non detti e sulla constatazione del fatto che il melodramma è una componente endemica dell'esperienza umana.
Diario di uno scandalo
Per Gracie, che si autodefinisce naïve, il dramma è spesso in agguato: nell'insufficienza di hot dog per un barbecue nel giardino della sua villa; nell'annullamento di un ordine per una torta già preparata; in una festa di famiglia che non è andata come sperava. Non è certo il primo ritratto di casalinga dell'America suburbana del cinema di Todd Haynes: basti pensare a due precedenti personaggi interpretati dalla stessa Julianne Moore, ovvero la Carol White di Safe e la Cathy Whitaker di Lontano dal paradiso, ma per certi aspetti anche alla socialite newyorkese a cui prestava il volto Cate Blanchett in Carol. Se però in Lontano dal paradiso e Carol Haynes rielaborava i modelli del mélo classico hollywoodiano (altro discorso per Safe, thriller contrassegnato da una ricercata freddezza), May December, presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, non si fa incasellare in una specifica categoria: potrebbe essere un character study a tinte noir, ma in cui lo spunto mélo, vale a dire la relazione illecita fra una donna adulta e un minorenne, è rivissuto nel contesto iperrealistico della quotidianità della periferia di Savannah, in Georgia.
La suddetta relazione, da cui deriva il titolo (espressione idiomatica per indicare una profonda differenza d'età fra due partner), è quella iniziata clandestinamente nel 1992 fra l'allora trentaseienne Gracie Atherton e il tredicenne di origini coreane Joe Yoo: una relazione sfociata nell'arresto della donna per abuso di minore, con inesorabile scandalo sbattuto sulle prime pagine dei rotocalchi nazionali, e in un successivo matrimonio corredato da tre figli. A ventidue anni di distanza, nel 2015, quell'alone di oscenità pare essersi dissipato: Gracie e Joe, ruoli affidati a Julianne Moore e Charles Melton, incarnano appieno il canonico modello dell'American way of life, con tanto di coppia di gemelli in procinto di diplomarsi e di rendere i genitori degli empty nesters. A increspare la superficie fin troppo quieta del loro idillio familiare è l'arrivo della Elizabeth Berry di Natalie Portman: un'attrice in procinto di iniziare le riprese di un film basato appunto sulla vicenda di Gracie e Joe e giunta a Savannah per 'studiare' il personaggio in cui dovrà immedesimarsi.
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Due protagoniste tra realtà e finzione
L'incontro fra Gracie ed Elizabeth segna dunque l'avvio di un meccanismo già alla radice della principale fonte d'ispirazione di Todd Haynes per May December, ovvero l'imprescindibile Persona di Ingmar Bergman: il gioco di rispecchiamenti fra identità femminili che si proiettano (e si confondono) l'una nell'altra, nucleo di una tradizione cinematografica che passa anche per Tre donne di Robert Altman, Mulholland Drive di David Lynch e Sils Maria di Olivier Assayas. Non a caso, nel film di Haynes, le due protagoniste sono spesso inquadrate nella cornice di uno specchio, laddove l'immagine sullo schermo riproduce sul piano visivo l'interrogativo al cuore del racconto: ciò che stiamo osservando è la verità di un individuo o piuttosto la finzione atta a mostrarci solo un lato di tale verità? Può la felicità di Gracie e Joe essere autentica, sebbene sia stata eretta sulle macerie di un passato così traumatico? Ed Elizabeth, che si impegna ad emulare toni e gestualità di Gracie, sarà in grado di catturare l'essenza della persona e di restituirla attraverso il personaggio?
"Sto facendo finta di provare piacere o... sto facendo finta di non provare piacere?", è il dilemma confessato da Gracie a un auditorio di liceali, mentre illustra il mestiere dell'attrice e le proprie emozioni nelle scene più conturbanti. In altre parole, dove si attesta il confine tra l'emozione e la finzione? La sceneggiatura, firmata dagli esordienti Samy Burch e Alex Mechanik e insignita della nomination all'Oscar, non lesina i riferimenti metatestuali, alludendo a più riprese all'ambigua dicotomia fra ruolo ed interprete e al vampirismo insito nella professione dell'attore: Elizabeth si mostra desiderosa di far luce sugli angoli più intimi della personalità di Gracie ("Dentro le persone esistono cose che non vengono fuori necessariamente subito, e io cerco di osservare i semi di quelle cose"), spingendosi al punto di assumere la parte della seduttrice nei confronti di Joe. E per quanto riguarda Gracie, è davvero così naïve come pretende di essere o si tratta di un'abilissima manipolatrice con un ferreo controllo sulla propria famiglia e, ancor di più, sulla propria storia?
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"Noi ci raccontiamo storie per vivere"
"Noi ci raccontiamo storie per vivere", è la frase con cui Joan Didion apriva il saggio introduttivo del suo The White Album, spiegando come noi tutti "viviamo grazie all'imposizione di una linea narrativa sulle immagini più disparate". Ecco, la grandezza di un film quale May December risiede anche nel modo in cui, evitando didascalismi di sorta o soluzioni a portata di mano, ci suggerisce la disperata necessità che quella linea narrativa assume per ciascuno di noi, al fine di governare il caos dell'esistenza e di non farsi risucchiare nel baratro delle pulsioni e dei sentimenti. E Todd Haynes, regista coraggiosissimo e refrattario ad adagiarsi sulle convenzioni, non si impone sui propri personaggi, e men che meno li giudica o ridicolizza: se qualche dialogo può assumere notazioni più corrosive (ma il bersaglio, semmai, è l'idea stessa che l'arte o il cinema possano consegnarci una versione 'definitiva' della realtà), a riempire lo schermo è comunque la contraddittorietà insondabile di uomini e donne determinati a offrire la propria prospettiva su di sé e sul mondo a cui appartengono.
Accade con il Joe di Charles Melton, adolescente costretto a crescere troppo in fretta e che ora, da adulto, ostenta la placida solidità di un perfetto padre di famiglia, salvo scoppiare in lacrime quando si trova a rimettere in discussione il suo ruolo di marito e di padre: un momento dolcemente patetico o ammantato di tragedia, a seconda di come lo si voglia guardare. Mentre Gracie, figura al contempo limpida e misteriosa, nella performance di una superba Julianne Moore oscilla paurosamente fra una visione romanticizzata del rapporto che l'aveva resa una criminale, la durezza celata dietro una facciata di benevolenza materna e l'isterico rifiuto di vedere intaccata la "linea narrativa" che ha portato avanti per oltre vent'anni. "Le persone insicure sono molto pericolose, non è vero?", domanda beffarda a Elizabeth, che credeva forse di aver individuato l'origine della sua fragilità (e che infatti, in questa scena, appare identica a lei). Ma la chiosa di Gracie è l'orgogliosa rivendicazione di una donna per nulla disposta a farsi sottrarre l'immagine di se stessa: "Io sono sicura: fa' in modo di farlo vedere".