Marty Supreme di Josh Safdie è un film schizzato, che gira e rigira, che batte e controbatte. Oscilla, da una parte all'altra, senza continuità eppure con una forte logica narrativa. Niente punti di riferimento, solo cambi e scambi: il punto di vista che si rimpalla, come una pallina da ping pong. Una storia amalgamata che ha un pretesto reale presto dimenticato: niente figure storiche, solo sensazioni, emozioni.
Cinema sportivo nell'etichetta e nell'evoluzione, forse. Cinema di uomini a metà per diametro e portata, certo. Istantanee di un'età che sfugge, che cambia, che evolve e inciampa. E proprio il cambiamento - per ammissione del regista - è lo spunto appunto di Marty Supreme. Fin dai prima accordi (la musica è fondamentale) sulle note dei Tears for Fears, Safdie sfodera tutto il suo senso cinematografico, riprendendo gli stilemi di quei capolavori come Good Time e Uncut Gems, diretti però con suo fratello Benny prima di una rumorosa separazione.
Marty Supreme: Timothée Chalamet al suo miglior ruolo
La sceneggiatura, firmata insieme a Ronald Bronstein, si ispira agilmente alla figura di Marty Reisman, evitando però biografia e agiografia. Promessa del ping pong dell'America anni Cinquanta, Marty Reisman diventa invece Marty Mauser, interpretato da Timothée Chalamet. Diciamolo subito: l'attore simbolo di una nuova Hollywood e di un nuovo star system sfodera la sua miglior prova. Il ruolo della maturità, quello della definitiva credibilità artistica.
Irrequieto e sfrontato, Marty ha un sogno in cui "nessuno crede". Sfondare, affermarsi, farcela. Esistere. Diventare campione di "tennis-table", contrapponendosi all'egemonia del Sol Levante, e sfidando pure l'architrave di una generazione pronta a mangiarsi i desideri dei più giovani, ridicolizzandoli e svilendoli. Ciononostante, tra incontri e scontri, a cavallo tra gli Stati Uniti di Truman e Eisenhower, Marty, sudato, denti sporchi e baffo da sparviero, punta in alto, costi quel che costi. Ma la vita insegna: attenzione a ciò che si desidera, perché potrebbe avverarsi. Un'equazione tanto banale quanto efficace, trasformata da Josh Safdie in brillante cinema.
Un film denso, tra paradiso e inferno
Ingombrante nel suoi 149 minuti di densissima narrativa, Marty Supreme sprigiona cinema in ogni sua inquadratura. La scenografia di Jack Fisk, i colori di Darius Kjondji, e poi la grana della pellicola 35mm. C'è un senso smodato di cinema che, oltre il banale, riflette la personalità di un protagonista decisamente efficace. Dietro lo spunto reale, Josh Safdie - e sappiamo quanto lo storytelling sportivo sia l'ossatura dell'epica americana - costruisce un romanzo di vita e di morte in cui si mischiano personaggi, odori, luoghi. In mezzo, la colonna sonora di Oneohtrix Point Never, che gioca di contrasto, per rendere il film un'istantanea senza tempo, sospesa tra il paradiso e l'inferno. Un'istantanea lunghissima, che si sofferma sull'attimo prima che il destino compia le sue scelte.
Marty Supreme è, letteralmente, il principio della genesi. Lo spazio tra ciò che è e ciò che sarebbe poi stato. Uno spazio vuoto da riempire con i sogni e i desideri. Sogni che mutano nell'ossessione, travolgendo tutto e tutti. Il tumulto della crescita, nell'indecisione di essere o non essere. Quasi shakespeariano, a tratti. Romanzo di formazione (e chi lo accosta a Il giovane Holden non sbaglia), elevazione della passione come auto-distruzione, ma anche riflessione generazionale in cui i cambiamenti, ripetiamo, si fondono con i terrificanti passi di un paese sempre più votato al capitalismo e al profitto. E se il filo del racconto spesso si allunga (il personaggio di Gwyneth Paltrow cade nel vuoto), ingarbugliandosi ma tenendo ben saldi i propri estremi, la traccia folle ed eccentrica è esagerata sì, ma al punto giusto.
Sogni e destino: un film che funziona
Ed è proprio nell'esagerazione che il respiro cinematografico si accorcia e il ritmo si contrae. Scena dopo scena, mentre la pallina impazzita rimbalza sul tavolo. Punto su punto. Vittoria, sconfitta, rivincita. Un ciclo infinito. In mezzo c'è Marty, fissando l'obbiettivo impossibile, cercando il proprio posto nel mondo. Non sarà facile, ma provare è sempre meglio che rinunciare. Perché se il destino è beffardo e i sogni restano nel cassetto, la vita riserva sempre le migliori sorprese. Quelle che non t'aspetti, facendoti sorridere all'improvviso guardando in faccia il futuro finalmente arrivato.
Conclusioni
Josh Safdie rivede lo storytelling sportivo in un film senza punti di riferimento. Marty Supreme, dalla grana spessa e tosta, giocando con la musica e la scena, è un romanzo di formazione dai contorni decisi, in cui la strada verso il sogno è lastricata da personaggi strani, incubi, svolte, drammi e imprevisti. Oltre due ore - che sono troppe, ovviamente - tenute insieme dalla prova fuori scala di Timothée Chalamet, al suo miglior ruolo.
Perché ci piace
- Timothée Chalamet al miglior ruolo.
- La grana cinematografica.
- L'evoluzione senza punti di riferimento.
- Il finale.
Cosa non va
- Alcune scelte cadono a vuoto.
- La durata.