Recensione Rent (2005)

Una trasposizione che non riesce a trasmettere quell'umanità e quella drammaticità che hanno fatto di Rent un musical tanto speciale e tanto amato.

Lost in Translation

Dopo The Producers, Rent è il secondo musical ad arrivare nelle sale italiane in questa stagione 2005/2006, quasi un record per un genere una volta simbolo del cinema americano, ma ora quasi a rischio estinzione. Come sempre più spesso accade per le poche pellicole musicali del cinema contemporaneo, anche questa nuova opera di Chris Columbus non è altro che la trasposizione filmica di un famoso musical (off)Broadway che nella seconda metà degli anni '90 infiammò il pubblico e la critica newyorkese conquistando moltissimi premi, tra cui 4 Tony Awards ed un premio Pulitzer. L'opera del compositore Jonathan Larson, che morì a 36 anni solo poche ore prima del debutto di Rent, è una rivisitazione in chiave moderna della Bohème di Puccini in cui un gruppo di artisti squattrinati dell'Alphabet City di New York cerca di sopravvivere all'ombra dell'AIDS.

Il film di Columbus segue fedelmente lo sviluppo della trama dell'opera di Larson limitandosi a sacrificare qualche numero meno significativo, e anche nella scelta di confermare l'original Broadway cast nella sua quasi interezza (l'unico cambiamento di rilievo è l'entrata di Rosario Dawson nell'inedito ruolo di cantante/ballerina grazie al quale il film guadagna sicuramente in fascino e visibilità) è evidente la volontà del regista di non voler interferire artisticamente più del dovuto, forse temendo anche l'ira dell'esercito di fan adoranti, un po' come era avvenuto con l'operazione Harry Potter. E' così che Columbus sembra accontentarsi di donare maggiore tridimensionalità e realismo agli ambienti e alle coreografie, a discapito, però, dello spazio concesso all'emotività e alla sensibilità degli interpreti (non sempre a loro agio nel passaggio in celluloide) e dei loro numeri musicali: rispetto ad altre pellicole similari (si pensi per esempio al bellissimo Hedwig - la diva con qualcosa in più) è presente una certa staticità con passaggi meno naturali tra il cantato e la messa in scena, e con alcuni momenti meno felici in cui sembra di assistere più ad una sequenza di video musicali che ad una vera e propria opera rock.

Non mancano momenti in cui la freschezza dell'opera di Larson riesce ad emergere nella sua interezza, è il caso per esempio del numero in due parti La Vie Bohème in cui riecheggiano aspetti di Hair sia nelle musiche e parole di Larson che nella messa in scena (basti ricordare Treat Williams che danza sul tavolo di un ricevimento signorile dinanzi all'imbarazzo dei commensali), ma è significativo notare come il film di Milos Forman (che era in ritardo di un decennio rispetto al musical di Gerome Ragni, proprio come questo Rent che arriva nelle sale dieci anni dopo il suo debutto teatrale) fosse riuscito ad inquadrare un'epoca, i suoi sogni e le sue contraddizioni molto meglio di quanto avviene nel film di Columbus. Ed è forse questo l'aspetto più deludente di questa trasposizione, la mancanza di una traduzione non tanto dei singoli momenti o dei singoli personaggi, ma dell'umanità e drammaticità che ha reso Rent tanto speciale ed amato.

Movieplayer.it

2.0/5