So che non hai paura di un po' di oscurità... perché tu sei l'oscurità.
Due minuti e mezzo e un paio di rapide battute: si consuma in questo breve spazio il prologo di Longlegs, racchiuso fra un cartello che riporta alcuni versi di Get It On dei T. Rex e i suggestivi titoli di testa, scritte nere su sfondo rosso accompagnate dalle note di un altro brano della rockband inglese, Jewel. Nel mezzo, uno degli incipit più incisivi del recente cinema horror, nonché un'emblematica dichiarazione d'intenti rispetto ai migliori elementi di questo quarto lungometraggio di Osgood Perkins. I toni più sgranati della fotografia rimandano alla natura di analessi della scena, ambientata nell'inverno del 1974, in un paesaggio innevato dell'Oregon; è qui che l'attenzione di una bambina viene attirata dall'arrivo di un'automobile e, pochi istanti più tardi, dall'apparizione di una misteriosa figura che l'accoglie con voce stridula, salutandola come "the almost-birthday girl".
Nella sua sostanziale semplicità, si tratta di un prologo in grado di immergerci fin da subito nell'atmosfera malsana che si dipanerà da lì in poi, e che gioca con grande intelligenza con le attese del pubblico, facendo leva in particolar modo sulle tecniche dell'omissione e dell'ellissi. Si parte con una soggettiva dall'interno dell'automobile, e dal lato del passeggero, ma senza rivelare l'identità di chi guarda (un aspetto che verrà alla luce solo nella seconda metà del film); si passa dunque all'interno della camera della bambina, la cui focalizzazione funge da controcampo rispetto alla prima inquadratura. Segue un'esplorazione silenziosa, in cui l'attenzione si sposta dalla sagoma indistinta dentro l'auto al "cucù" pronunciato da un'altra sagoma, che fa capolino da un angolo della casa. La bambina ritorna sui propri passi, nel silenzioso candore di quel manto di neve, e di colpo eccoci al primo incontro con il personaggio del titolo.
Volto senza occhi: il serial killer di Nicolas Cage
Per l'esordio di Longlegs, Osgood Perkins si affida ad un piano medio con qualcosa di anomalo: lo schermo in formato 4:3, volto a trasmettere un senso di prossimità e di claustrofobia, è riempito quasi del tutto dalla figura dell'uomo, tagliando però l'immagine all'altezza del naso. La nostra visuale è ostruita, costringendoci a focalizzarci sulla voce sinistra dell'individuo, su quella bocca spalancata in una maschera di cerone bianco; la parte superiore del volto rimane invece fuori campo, per poi mostrarsi all'improvviso per appena una frazione di secondo. L'introduzione del serial killer eponimo, incarnato da un irriconoscibile Nicolas Cage, è l'elettrizzante "biglietto da visita" di un thriller che, per almeno un'ora di durata, si basa appunto su questo: non scoprire le proprie carte, non dare immediatamente fattezze concrete all'orrore, non permettere al pubblico di aggrapparsi ad alcuna coordinata certa.
È un approccio, quello di Osgood Perkins, mantenuto per l'intera prima parte del film, e che emerge in particolare nelle scene di maggior tensione. Nel presente della narrazione, collocato intorno alla metà degli anni Novanta, la giovane agente dell'FBI Lee Harker (la Maika Monroe di It Follows) è impegnata in un'indagine porta a porta con un suo collega, l'agente Fisk (Dakota Daulby), quando avverte un cupo presagio; da lì a qualche istante si verifica una repentina esplosione di violenza, di cui tuttavia non vediamo l'artefice, ma solo gli effetti. Pistola in pugno, Lee si addentra in una casa spettrale avvolta da teloni di plastica, determinata a catturare l'assassino di turno: il rimando, evidentissimo, è alla sequenza clou del capolavoro di Jonathan Demme Il silenzio degli innocenti, ma pure in questo caso a Perkins interessa più costruire uno stato di angoscia che non portare l'azione fino in fondo.
Longlegs, spiegato: un meraviglioso bluff (satanico)
Longlegs: un thriller perturbante tra ambiguità e fuori campo
In tale ottica, il picco di suspense della prima metà dell'opera viene raggiunto durante la scena ambientata di notte nell'isolata baita di legno in cui abita Lee: è una situazione in cui, più che ai canoni del poliziesco, il regista attinge a un certo immaginario horror, che da lì in poi diventerà sempre più predominante, in linea con lo slittamento della trama verso i territori del paranormale. Questa volta, la protagonista entra in contatto direttamente con Longlegs, ma è un confronto avvolto nell'ombra: il 'mostro' è niente più che un'entità indefinita nelle tenebre del bosco circostante, o una miniatura che fa capolino al di là del vetro di una finestra. La sua è una presenza dai tratti metafisici, che si concretizza nell'ennesima lettera cifrata, indirizzata a Lee stessa, a riprova di un legame che ancora sfugge alle maglie della razionalità, spostando al contrario la nostra percezione della storia nella dimensione del perturbante.
Un'ampia misura del successo di Longlegs, accolto da un ottimo responso negli USA, dipende proprio da scelte come queste: l'intelligenza di riconoscere e sfruttare il potere evocativo del "non visto", arrivando ad offuscare quanto più a lungo possibile le grottesche sembianze del villain di Nicolas Cage e, al contempo, congelando il racconto in uno spazio liminare fra la realtà e l'incubo, una sorta di "non luogo" sospeso fra il passato e il presente, fra la detection poliziesca e l'horror demoniaco. Finché conserva tale ambiguità, fin quando riesce a tenere le redini della nostra immaginazione, Longlegs ha tutto il potenziale per essere un grande film; poi, laddove comincia a sciogliere i dubbi e a fornire delle risposte, forse perde qualcosa in termini di efficacia e di suggestione. Ciò nonostante, al netto dei suoi difetti, quanto visto (e quanto non visto) fino ad allora basta probabilmente a fargli guadagnare un posto di rilievo nell'iconografia del thriller contemporaneo.