Una gru sospesa sui tetti di Roma sul finire degli anni '70, tutto intorno una terra di confine, spazi di frontiera popolati da modelli familiari superati, ragazzini alla scoperta della propria identità e il percorso di transizione di una ragazzina che non si riconosce nel corpo che abita. Inizia così il nuovo film di Emanuele Crialese (come leggerete la recensione de L'immensità in sala dal 15 settembre), che torna nel concorso ufficiale della 79° Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia dopo Nuovomondo. Questa volta si mette a nudo e realizza un film profondamente autobiografico sulla sua transizione da donna a uomo, e ce lo conferma lui stesso: "Adriana è ispirata alla mia infanzia, sono io". Un'opera molto intima, che però sembra non arrivare fino in fondo, emotivamente frenato ma capace comunque di regalare alcuni momenti che hanno il tocco di una carezza.
La famiglia come luogo di repressione
Tutto ne L'immensità è sospensione, attesa, terra di mezzo: dopo l'apertura sullo skyline romano, Crialese irrompe sul volto di Penelope Cruz, un primissimo piano che indugia sul dettaglio degli occhi. Così lo sguardo del regista ci accompagna dentro la storia del film, dove l'attrice interpreta Clara che con Felice (Vincenzo Amato) e i loro tre bambini, Adriana, Gino e Diana, si è appena traferita nel nuovo appartamento. Un tuffo in un mondo ancorato a una società fortemente patriarcale, dove la vita familiare medio borghese trascorre tra gite fuori porta e rumorose riunioni di famiglia, e le donne aspettano a casa mariti in carriera "con il debole per le segretarie". Nelle case degli italiani arrivano i balletti liberatori di Raffaella Carrà, le canzoni di Mina e Patty Pravo, la camminata molleggiata di Adriano Celentano che insieme alla Carrà farà cantare e ballare casalinghe e ragazzi sulle note di Prisencolinensinainciusol.
Succede anche a Clara e ai suoi figli, in alcuni momenti di pura libertà e gioco, prima che con il rientro a casa del padre da lavoro, tutto ripiombi nell'ordine tra cene rigorosamente composte e tavole mute. Il loro matrimonio in realtà è arrivato al capolinea, ma lui la tradisce, lei si tiene tutto dentro affogando la sofferenza in pochi sparuti sprazzi di follia, sigarette e qualche calice di vino. Non riescono a lasciarsi e a tenerli uniti sono soltanto i figli su cui Clara riversa tutto il proprio amore e desiderio di libertà, e per i quali è disposta perfino a chiudere un occhio davanti agli scatti violenti del marito. Adriana/ Adri, la più grande, ha appena compiuto dodici anni ed è la vigile testimone degli stati d'animo della madre, la sua custode: tra i tre è quella a cui Clara rivolge maggiormente le sue cure materne. Si fa chiamare Andrea, rifiuta la sua identità, perché in quel corpo di donna non si riconosce affatto e vuole convincere tutti di essere un maschio. L'unico luogo in cui può essere finalmente se stessa è il microcosmo che si apre al di là del canneto dietro casa, in un cantiere edile dove alloggiano temporaneamente gli operai e le loro famiglie: qui sperimenterà le prime forme dell'amore incarnato dalla coetanea Sara. Nel frattempo il mondo sta cambiando.
L'immensità, Emanuele Crialese: "Sono nato donna. Il film racconta la mia infanzia"
La musica, Raffaella Carrà e il desiderio di libertà
Emanuele Crialese si affida ad una narrazione che alterna slanci di infinita tenerezza a visioni immaginifiche in bianco e nero, come i momenti karaoke in cui Adriana immagina sua madre e se stessa reinterpretare alcuni cult dell'epoca da Prisencolinensinainciusol alla struggente Love story cantata da Johnny Dorelli. C'è una Penelope Cruz di infinita dolenza e malinconia, ed una protagonista, la giovanissima esordiente Luana Giuliani, che buca lo schermo per sincerità.
Entrambe prigioniere di mondi che non gli appartengono: Adri di un corpo che le sta stretto e rispetto al quale si sente un'aliena ("Vengo da un'altra galassia e tu non hai il potere di aggiustarmi") e Clara di un sistema che silenzia qualsiasi deviazione dall'ordine precostituito. Non mancano momenti di scanzonata leggerezza soprattutto quando entrano in scena i più piccoli, ma la sensazione alla fine è quella di vivere un film incompleto, a volte quasi impersonale e inconcludente, con qualche intrusione onirica di troppo. Fino alle note de L'immensità di Don Backy che arriva sui titoli di coda restituendogli una parte di senso e amorevolezza.
Conclusioni
La recensione de L’immensità si conclude con la consapevolezza di quanto possa essere complicato mettere in scena pezzi della propria vita e per Emanuele Crialese non deve essere andata diversamente. Il film con cui racconta il suo percorso di transizione da donna a uomo, è un racconto di formazione con slanci di infinita tenerezza e altrettanti momenti in cui le emozioni frenano. Visioni oniriche spesso disconnesse dal flusso della narrazione fanno il resto in un film che lascia più di un dubbio, ma che è capace di imporsi per i momenti più scanzonati e per quegli attimi, istanti, secondi in cui madre e figlia diventano segretamente complici.
Perché ci piace
- Un film profondamente autobiografico in cui Emanuele Crialese si mette a nudo raccontando la sua adolescenza, attraverso il percorso di transizione della protagonista: una bambina che vuole essere maschio.
- Penelope Cruz è una madre dallo sguardo dolente e malinconico.
- Gli slanci di infinita tenerezza.
Cosa non va
- Il racconto risulta alla fine inconcludente, tutto rimane troppo in superficie.
- Per essere il film più intimo e personale di Crialese, la sensazione è che manchi la dimensione più emotiva a favore di scelte spesso artefatte.
- Le incursioni oniriche irrompono sulla scena senza bene amalgamarsi al resto del contesto narrativo, una sequenza di visioni disconnesse dal flusso del racconto.