Sarà la volta buona per Leonardo DiCaprio? Ce lo stiamo chiedendo un po' tutti in queste settimane di awards season. Di sicuro, dopo le nomination di giovedì scorso, con il suo Revenant - Redivivo a quota 12 candidature, e a questo punto favorito anche per le statuette principali, e nessuno dei suoi rivali, per il momento, particolarmente minaccioso, Leonardo DiCaprio è molto più vicino all'Oscar come migliore attore.
Noi ci crediamo; inizia a crederci anche lui, forse, ma senza alcun dubbio ci crede la Fox, che lo ha portato in Europa in tour promozionale in compagnia di Alejandro González Iñárritu, il regista di Città del Messico che rischia di entrare nella storia vincendo consecutivamente due Academy Awards per la migliore regia. Ieri, giorno dell'uscita di Revenant nelle sale italiane (e l'uscita è slittata dal giovedì al sabato proprio a causa di questo attesissimo appuntamento per stampa e per i fan di Leo), abbiamo avuto l'opportunità di incontrarli in conferenza stampa, per parlare di un film che sembra aver diviso i nostri critici più di quanto non sia accaduto oltreoceano, ma che rappresenta in ogni caso un'esperienza di visione cinematografica senza precedenti.
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Iñárritu e Lubetzki: i segreti di un tandem da sogno
Iñárritu, Revenant è un film in cui è molto riconoscibile lo stile del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, ci sono eco del suo lavoro con altri registi. Qual è stata la sua influenza sul suo lavoro?
Alejandro González Iñárritu: Penso che realizzare un film sia un lavoro complesso e estremamente collaborativo, ci sono molti elementi e molti reparti che danno il proprio contributo. Con Chivo ci siamo conosciuti quando avevamo poco più che vent'anni, abbiamo collaborato per tanti anni anche a cortometraggi e spot, siamo amici e sono stato un suo fan sin dall'inizio. Quando lo chiamo per un mio progetto, per prima cosa discuto con lui i miei obiettivi, gli illustro la mia idea e ciò che voglio ottenere, della fondazione vera e propria del film. Poi ci immergiamo negli aspetti tecnici e logistici che serviranno a realizzare quello che ho in mente di realizzare a livello emozionale e narrativo, facciamo esperimenti e tantissimi test con apparecchiature e lenti diverse. E' un processo che richiede molto tempo in cui tutti e due cerchiamo di capire come concretizzare l'idea filosofica alla base del film. Quando abbiamo tutti gli strumenti, inizia un'altra fase molto interessante: c'è chi fa lo storyboard, c'è chi fa altri tipi di preview, io preferisco andare sul posto e cominciare a sperimentare con i movimenti e il ritmo per ottenere l'effetto drammatico che ho in mente. Il contributo di Chivo è assolutamente prezioso, il suo modo di gestire la camera, di regolare l'esposizione, è tutto assolutamente cruciale. La sua padronanza della luce è formidabile, e così la sua abilità nel muovere la camera, danzare con gli attori. Ma ogni elemento della messa in scena, ogni movimento della camera è stato pensato e progettato qualcosa come sei mesi prima delle riprese.
Il film rappresenta una visione grandiosa e inedita del west. Quali sono stati gli elementi dell'iconografia western che le sono rimasti negli occhi?
Le ispirazioni di Revenant non sono propriamente western. I miei modelli principali sono stati Andrej Rublëv di Andrei Tarkovsky, Dersu Uzala di Akira Kurosawa, Aguirre, furore di Dio e Fitzcarraldo di Werner Herzog e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, tutti film che mi hanno incredibilmente ispirato. Non ho preso in considerazione l'immaginario western perché non credo che Revenant sia un western; i western sono film epici, di ampio respiro, ma non hanno la dimensione intimistica che io volevo per Revenant.
Le impronte sulle lenti: "National Leographic"
Nel film l'obiettivo è molto visibile: l'alito - anche l'alito dell'orso! - sangue, acqua, luce... è un elemento in più per fare sentire lo spettatore partecipe di ciò che avviene sullo schermo?
Leonardo DiCaprio: Sì, penso proprio che sia così, penso in questo caso Alejandro volesse mostrare il sangue che schizza e l'alito sulla lente per fare sentire lo spettatore il più vicino possibile all'azione, per creare un'esperienza straordinariamente viscerale di quello che stanno vivendo i personaggi; credo che con questo film Alejandro e Chivo abbiano voluto creare qualcosa di iperrealistico, una sorta di docu-drama in cui la rappresentazione dell'ambiente è più realistica e fluida possibile, quasi che guardassimo qualcosa che non dovremmo poter vedere. Questo per coinvolgere lo spettatore su più livelli, non solo visivamente ma anche spiritualmente. Così si è riusciti a creare questo rapporto incredibilmente intimo con i personaggi: sembra quasi di sentire il calore dell'alito, il battito del cuore, la costante tensione dentro di loro e allo stesso tempo essere immersi in questi paesaggi grandiosi. E' una testimonianza della loro bravura di cineasti, non ho mai partecipato prima a un film in cui il legame tra l'ambiente e l'interiorità personaggi fosse così incisivo.
Alejandro González Iñárritu: Quando iniziai a pensare questo progetto, uno dei miei obiettivi era proprio quello di creare la sensazione del documentario, con animali e paesaggi percepiti come se fossero in tempo reale, davanti a noi. Se avessi girato questo film cinque anni fa, prima di Birdman e con le tecnologie disponibili allora, non avrei potuto fare The Revenant così come lo volevo fare io. E' stato possibile fare questo film grazie a quello che abbiamo imparato realizzando Birdman. Per me la cosa importante era portare il pubblico lì, farlo entrare in quel mondo, quasi come una soggettiva, unendo fiction e documentario. E in questi gioni ho letto un titolo di un giornale dedicato al nostro film che recitava "National Leographic".
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Leo e l'Oscar, pensando al pubblico, all'arte e all'ambiente
Una carriera straordinaria, tanti ruoli coraggiosi e tante emozioni che ci hai regalato: un Oscar ne sarebbe il degno coronamento?
Siamo stati immensamente felici delle notizie dell'altro giorno, di questo tributo dell'Academy a Revenant. Il lavoro a questo film è stato lungo e intenso, è stato un viaggio più che un film, un viaggio in quelle zone e nella storia di Hugh Glass; un intero capitolo delle nostre vite in cui ci siamo impegnati tantissimo, e vederlo riconosciuto fa piacere. Per me personalmente, gli Academy Awards non sono la ragione per cui faccio film. Quando sei sul set non stai a pensare che potresti essere candidato, o vincere un Oscar. I premi sono qualcosa che è completamente fuori dal nostro controllo, noi facciamo il nostro lavoro meglio che possiamo, sta agli altri riconoscerlo oppure no. È compito loro. Lo scopo del nostro lavoro è portare la gente al cinema, e le nomination agli Oscar possono contribuire a fare sì che più persone vedano il film, e magari a convincere finanziatori e studios a realizzare più film come questo. Perché io credo proprio che quello che Alejando e Chivo hanno realizzato con questo film sia rivoluzionario: un epos artistico su vasta scala. Non si vede molto spesso, se mai si è visto.
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Per te ogni ruolo è una sfida, questa in particolare cosa ti ha lasciato?
Ci siamo avvicinati a questo progetto con tutta l'apertura possibile, la storia di Hugh Glass è una di quelle che si raccontano intorno al fuoco, per ricordare i tempi in cui gli uomini di frontiera sfidavano e dominavano la natura incontaminata. Per me ha significato anche esplorare l'avidità degli esseri umani nel loro rapporto con il mondo naturale, come l'uomo ha dominato, saccheggiato la natura per estrarre tutte le risorse possibili senza pensare con conseguenze devastanti per le popolazioni indigene.
Questo non è l'unico film a cui ho lavorato recentemente, ho completato anche un progetto personale sugli effetti dei cambiamenti climatici sull'ambiente naturale, e abbiamo potuto toccare con mano la portata dei cambiamenti dovuti al riscaldamento lontano dalle città. Anche l'innalzamento di un grado di temperatura trasforma completamente l'ambiente. Questa immersione nella natura mi ha dato la sensazione che essa mi venisse incontro, mostrandomi quanto è fragile il mondo naturale. Il 2015, che è stato l'anno più caldo di tutti i tempi, resterà per me un anno simbolico, un vero punto di svolta, per questi due film e per la COP21, la prima occasione in cui le nazioni sembrano aver tentato di confrontarsi per fare qualcosa di concreto per combattere il problema dei cambiamenti climatici.
Come hai lavorato per creare questo personaggio?
Nonostante Hugh Glass non sia vissuto in tempi lontanissimi, la sua storia non si è svolta in un ambiente un cui fosse possibile documentare gli avvenimenti, non c'erano certamente storici alla Frontiera americana. Di conseguenza non ci sono molti documenti disponibili, se non diari e memoriali di esploratori, avventurieri come Glass che vivevano in quelle aree; e poi ci sono gli aneddoti e le leggende raccontate dai nativi. È stato un po' come fare fantascienza, ricreare questi avvenimenti da un immaginario così inafferrabile. Ho immagazzinato le loro storie, il senso di nostalgia e la pervicacia di questi straordinari spiriti che hanno saputo sopravvivere del poco che gli dava la natura selvaggia. Una volta iniziate le riprese però tutto questo si è fuso con ciò che voleva creare Alejandro: ci siamo immersi completamente in questo ambiente e nell'esperienza di quest'uomo che saputo perseverare in una situazione impossibile per sopravvivere. Soltanto l'idea di ripercorrere le sue orme ci ha dato la giusta ispirazione; c'è poca preparazione, quindi, e molto istinto.