"Ripartire dalla semplicità": l'imperativo per Antonio Bigini è questo, almeno se vogliamo riappropriarci del valore delle immagini. E non poteva essere diversamente per uno che non guarda serie tv, ci è riuscito una sola volta con La regina degli scacchi, ci dice, ma non per più di tre episodi, e che sceglie di firmare il suo esordio alla regia con un film sull'invisibilità, Le proprietà dei metalli. La storia si ispira a una vicenda poco nota, il fenomeno dei cosiddetti "minigeller", bambini che alla fine degli anni Settanta, dopo aver assistito all'esibizione televisiva dell'illusionista Uri Geller, apparentemente in grado di piegare chiavi e cucchiai al solo tocco, hanno cominciato a manifestare fenomeni simili. Bigini decide però di non mostrare e fa di questa scelta il fulcro narrativo del film in sala dal 18 maggio dopo il passaggio allo scorso Festival di Berlino. Lo incontriamo al Bellaria Film Festival, dove Le proprietà dei metalli è stato presentato al pubblico nella serata inaugurale lo scorso 10 maggio.
Dal documentario alla finzione
Hai sempre pensato di trattare questa storia in un film piuttosto che in un documentario? E come ci sei arrivato?
Il dato inziale è stato l'incontro con un professore di fisica di Bologna che negli anni '70 studiò questi bambini. È a lui che si ispira il personaggio del professor Moretti nel film. Inizialmente ho valutato anche l'idea di farne un documentario, ma che non fosse di interviste e teste parlanti; inoltre i materiali d'archivio che avevo trovato non erano all'altezza di reggere il film che avrei voluto fare, per cui ho accantonato l'idea molto rapidamente. Mi piaceva invece la storia di questi bambini che vivono nelle campagne, l'attenzione rivolta loro dagli adulti che gli chiedevano di performare dei poteri; non si capiva se c'era del vero o meno. La storia che avevo letto era molto potente e mi è rimasta dentro, fino a quel momento non avevo mai pensato davvero di fare un film di finzione. L'ho assecondata e ho deciso di raccontarla provando a scrivere un film e seguendo un istinto abbastanza irrazionale. La storia che ho scritto ha un'aderenza rispetto a quella vera ma vi si ispira molto liberamente, ci ho messo molto delle mie esperienze e l'ho fatta mia. Non avevo mai scritto una sceneggiatura prima di allora, ma si impara facendo...
Cosa ti ha colpito al punto da scommetterci addirittura il tuo primo film di finzione?
Sono state soprattutto alcune immagini d'archivio, avevo trovato un 8 mm muto in cui si vedeva un bambino silenzioso in mezzo a degli adulti in un salotto che prima si girava di spalle e poi tornava in avanti con queste chiavi piegate. C'era qualcosa di magnetico in queste immagini, mi colpì il suo sguardo di gioia mista a tristezza; quella complessità di emozioni sul volto di un bambino mi ha guidato. Volevo raccontare ciò che c'era dietro, cosa c'era nella sua testa e mi hanno mosso poi tutta una serie di ragionamenti e di cose sul rapporto tra adulti e bambini, sulle aspettative che gli adulti proiettano sui più piccoli, sull'immaginario dei bambini, la loro fantasia e su come tutto questo si scontri anche con una mentalità pratica, economica e materialistica.
Possiamo definire Le proprietà dei metalli anche una storia di formazione?
Lo è e come tutti i film di formazione racconta anche un passaggio e arriva a un punto in cui si chiude un percorso. Il film chiude un'epoca del bambino e ne apre un'altra, forse mette fine proprio all'infanzia, il periodo in cui certe magie e slanci della fantasia sono ancora possibili. Senza fare spoiler la storia si conclude con un'altra relazione, uno scambio di sguardi tra il protagonista e una bambina; quello per me segna l'inizio di una nuova fase, in cui non è più centrale la famiglia, ma si aprono nuove relazioni che possono essere sentimentali e che riguardano l'adolescenza.
Le proprietà dei metalli, la recensione: fenomeni paranormali (in)controllabili
L'immaginario degli anni '70
Un altro tema che affronti è la società contadina degli anni '70...
È un dato appreso proprio dallo studio della storia alla base del film. Molti di questi fenomeni avvenivano soprattutto in un contesto umile, ultima roccaforte di una forma di paganesimo contadino. Oggi viviamo una società che ha maturato e digerito determinate cose e dove certe ingenuità, come credere davvero che un bambino possa piegare degli oggetti col pensiero, non sono più forse possibili, però a quel tempo lo erano specialmente in strati sociali più semplici, dove vigeva una forma di misticismo popolare.
Nel film è ricorrente un'immagine: sullo schermo della tv che padre e figlio guardano passano alcune scene di Sandokan. Come le hai scelte?
Gli anni '70 si possono evocare in tanti modi, di solito li associamo a cose più ovvie come la contestazione politica e il terrorismo dimenticando spesso che erano molto altro e per la maggior parte degli italiani erano ciò che passava la televisione, e quello che passava la tv nel '76 era Sandokan. Tutti i ragazzini parlavano solo di Sandokan, almeno a guardare gli archivi delle teche Rai, se lo ricorda un'intera generazione e un sacco di bambini di allora oggi sono cinquantenni con il nome di Sandokan. Nello specifico ho scelto la scena della lotta con la tigre perché fa da specchio all'aggressività e alla lotta con il lato oscuro del personaggio. Mi sembrava funzionale al racconto insomma ed è stata una scelta abbastanza immediata.
La scelta di non mostrare: fenomenologia dell'invisibile
La cosa più strana che ti è stata detta sul film?
Nelle proiezioni destinate al pubblico più giovane le osservazioni più strane sono venute proprio dai bambini con le domande più disparate sul finale o su quanto tutto questo fosse veramente accaduto, volevano sapere ad esempio se il protagonista avesse davvero il potere di piegare i metalli con il pensiero. È un film che può generare delle aspettative rispetto a una spettacolarizzazione della cosa, che poi però vengono puntualmente frustrate o comunque disattese; nei bambini c'è meno frustrazione, perché semplicemente seguono la storia, ne sono incuriositi, non hanno aspettative di genere, entrano dentro la storia, si identificano molto con il personaggio, non c'è mai un smarrimento rispetto a come il film è trattato. Gli adulti invece si aspettano un film diverso, mi chiedono perché ad esempio ho scelto di non mostrare, di sviare l'aspetto del paranormale. In questo senso quello dei bambini è il mio pubblico ideale.
Hai avuto modo di contattare qualcuno dei bambini coinvolti?
Avrei potuto, perché ero riuscito ad avere il contatto di uno di loro che oggi vive in Canada, ma non ho voluto. Ho capito che il piano della realtà non mi interessava, altrimenti avrei fatto un documentario; mi piaceva invece lasciare una zona di proiezione tutta mia in cui non avevo bisogno di sapere tutto. Quella storia mi affascinava nella misura in cui alimentava anche la mia immaginazione, quindi a un certo punto mi son dato un limite nell'esplorazione della vicenda; capire che parlare con quei bambini ormai adulti non era essenziale per il film è stato un momento di presa di coscienza: non volevo raccontare una storia vera, ma qualcos'altro.
Cosa è rimasto di quella vicenda?
È completamente sparita dal nostro immaginario collettivo, nessuno ne sapeva più niente. L'ho ripescata andando a ravanare negli archivi, nel passato, nelle testimonianze. Di fatto questa storia non ha lasciato niente, a meno di qualche traccia in alcuni film americani dove filtrata e rifiltrata è sopravvissuta nella forma di un deposito consumato di immaginario collettivo legato al genere della fantascienza. Pensiamo allo stereotipo del bambino paranormale.
Hai parlato spesso del bisogno nel cinema di "pulizia da un punto di vista estetico". Secondo te quello che ci circonda oggi è troppo poco pulito?
Mi sono chiesto spesso come raccontare questa storia, ci sono tanti modi: si può spettacolarizzare, spingere sul genere, si possono fare tanti film con una storia simile. Io ho scelto di fare un film forse contro intuitivo rispetto alle sue premesse, è come se avessi negato il potenziale spettacolare, anche se in verità penso di averlo spostato su un altro punto. Mi premeva raccontare di relazioni che per loro natura sono invisibili, il tema centrale così è diventato l'invisibilità: sia quella del potere del bambino e delle sue forze, sia l'invisibilità dei sentimenti e delle emozioni. Questo tipo di racconto è possibile solo con un linguaggio allusivo, di sottrazione, dove il fuori campo è più importante di quello che si vede, e il suono e la musica sono molto importanti. Il concetto di pulizia e semplicità ha a che fare proprio con scelte di linguaggio che non inseguono stilemi televisivi, ma vanno all'origine del modo stesso di raccontare con le immagini in movimento. Vuol dire ripartire raccontando una storia semplice e dimenticando il modo in cui siamo abituati a raccontare oggi queste storie.